“Decenni di maree nere non ci hanno insegnato niente. Dopo tante promesse di “rivoluzione verde” e Green Economy, agli inizi di aprile 2010, Barak Obama ha ridato il via alle esplorazioni petrolifere offshore negli USA, dopo una lunga moratoria. Un pedaggio pagato alle lobby petrolifere per far passare un “Climate Bill”(la legislazione per la riduzione delle emissioni di gas serra) che riduce le emissioni degli USA solo del 4% rispetto al 1990 (anno di riferimento del Protocollo di Kyoto). Obama è stato subito ripagato da BP, proprietaria della Deepwater Horizon, con una marea nera che lascerà il segno”. Questo il commento a dir poco profetico pubblicato da Greenpeace lo scorso 4 maggio riguardo all’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, di proprietà della Beyond Petroleum ex British Petroleum, nel Golfo del Messico che sta provocando danni incalcolabili alle comunità e all’ambiente.
Oggi martedì 18 maggio, dopo ben due settimane, gli attivisti dell’organizzazione non governativa tornano sul proprio sito web pubblicando del materiale fotografico che testimonia come nessun passo avanti è stato fatto nell’arginare la marea nera. Le foto pubblicate mostrano come la marea sia giunta gia sulle coste americane, in particolare nell’area di Sauth Pass, in Louisiana, vicino alla foce del fiume Missisipi. Gli attivisti, allontanati immediatamente dalla Guardia Costiera, denunciano come “la reale fuoruscita di petrolio sia ben dieci volte più grande di quanto dichiarato da BP: ecco perché si cerca di nascondere agli occhi dell’opinione pubblica l’entità di questo disastro. Prima avvelenano il mare con i disperdenti chimici per far sparire il petrolio e adesso allontanano chi cerca di monitorare e documentare l’espandersi del disastro“.
Ancora: “È passato più di un mese e il pozzo non è ancora stato chiuso. È ormai sotto gli occhi di tutti che non esistono misure preventive o sufficienti tecnologie di pronto intervento: il rischio delle perforazioni petrolifere offshore è troppo alto per l’ambiente e per le popolazioni”. La situazione è ancor più preoccupante se si pensa che in documenti ufficiali compilati prima di ricevere l’autorizzazione per queste esplorazioni petrolifere la Beyond Petroleum affermava che era improbabile si verificasse una catastrofe, e che, in caso di disastro, le 50 miglia di distanza dalla costa avrebbero reso altrettanto improbabile un interessamento della costa.
La portata di questo disastro non sembra però aver fatto cambiare idea alle società petrolifere e ai Governi riguardi a questo tipo di perforazioni infatti, come denuncia Greenpeace, è di pochi giorni fa la notizia che i piani della Shell per iniziare perforazioni petrolifere in Alaska stanno andando avanti, mentre anche nel nostro Mediterraneo le richieste di autorizzazioni aumentano, soprattutto in Adriatico e nel Canale di Sicilia.
di Roberto D’Amico