Sono passati anni, sono state dette parole, portate prove, fatte udienze, ma quel buco nero invece di dissolversi si è ingrandito sempre di più. Ed oggi, a 16 anni e 16.000 parole di distanza, arriva qualcosa di insperato che getta una luce inquietante, ma attesa, sulla morte della giornalista Ilaria Alpi, avvenuta nel 1994, e sulle indagini da lei condotte circa un probabile traffico di rifiuti. Indagini che potrebbero essere state la causa della sua morte. Indagini ignorate da molti.
Di sicuro non da Greenpeace. Che oggi si presenta, carte alla mano, di fronte alle Nazioni Unite con un‘accusa pesante: l’Africa, per anni, è stata utilizzata come discarica a cielo aperto dai maggiori Paesi industrializzati, Italia compresa. Le carte, nello specifico, sono racchiuse in un dossier, con tanto di immagini, dal titolo “The toxic ships: the italian hub, the Mediterranean area and Africa” (“Le navi tossiche: lo snodo italiano, l’area mediterranea e l’Africa”). E’ sicuro Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia: «Dopo tante parole, tanti sospetti sull’utilizzo dell’Africa e della Somalia come pattumiera dei Paesi ricchi, finalmente sottoponiamo all’opinione pubblica elementi concreti».
E sono sconvolgenti davvero questi elementi. Foto, soprattutto, risalenti al 1997, che ritraggono il porto di Eel Ma’aan in costruzione. In primo piano la banchina non ancora completata, alla base della quale sono ammassati container metallici, normalmente destinati al trasporto merci. Si tratta di una modalità di costruzione davvero inusuale. In particolare si può osservare un grosso contenitore blu che fuoriesce, letteralmente, dallo scheletro interno della barriera portuale. Infine l’immagine più agghiacciante: una veduta aerea dell’intera area di edificazione. Superfluo descrivere lo spettacolo offerto dalla visuale.
L’indagine condotta dal noto movimento ambientalista svela una fitta rete di rapporti sotterranei, sviluppatisi in Africa sulla questione rifiuti. Ma l’elemento che ritorna costantemente in molti, troppi punti del documento, è il nome dell’imprenditore Italiano Giancarlo Marocchino. E qui tutto si fa drammaticamente chiaro. Marocchino è colui che il 20 marzo del 1994 per primo soccorse la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, caduti in un agguato di guerriglieri Somali a Mogadiscio. Lo stesso uomo che, come riportato nel rapporto della commissione d’inchiesta per l’omicidio Alpi, si occupò della costruzione del porto di Eel Ma’aan. Straordinaria quanto improbabile coincidenza.
Che a ben vedere coincidenza non è poiché, nel corso degli anni, diversi testimoni hanno sostenuto tutti una stessa tesi. Basti pensare alla dichiarazione fornita nel 1998 da Ezio Scaglione, console onorario della Somalia, il quale, al procuratore Tarditi, ha raccontato che «Marocchino aveva detto di poter sistemare rifiuti radioattivi seppellendoli in container utilizzati per rafforzare il molo di Eel Ma’aan» (citazione dall’inchiesta Greenpeace numero 395/9).
Dai documenti presentati all’ONU, Giancarlo Marocchino, mai indagato in passato, risulterebbe, e poniamo l’attenzione sull’utilizzo del condizionale in quanto nessuna conclusione è stata ancora raggiunta, non solo il collegamento principale tra la morte della giornalista italiana e lo scandalo dei rifiuti africani, ma anche il responsabile di entrambe le vicende. Secondo questa ricostruzione la Alpi avrebbe scoperto i traffici dell’imprenditore che per questo motivo diede l’ordine di ucciderla. Chi scrive sospende completamente il giudizio lasciandolo al lettore. Di certo è stata scritta un’altra fondamentale pagina di questa favola cattiva. E chissà che non sia l’ultima.
Katiuscia Provenzani