Il 44,5% degli operai di Pomigliano ha espresso, votando “no” o astenendosi, la propria contrarietà all’accordo siglato nelle settimane scorse da Fiat, Film e Uilm. Considerando anche il voto dei “colletti bianchi”, i dirigenti dell’azienda, la percentuale si ferma al 40,86%.
Lontanissime le percentuali da plebiscito auspicate dal dg Sergio Marchionne e da Confindustria e Governo, il risultato ha finito per sorprendere anche i sindacati contrari all’accordo, Fiom-Cgil e comitati di base, che temevano potesse prevalere la forza del ricatto “diritti o lavoro” imposto dall’azienda rispetto alla coscienza di classe di dover unirsi e lottare degli operai.
Preoccupazione legittima, considerate le dichiarazioni di quei lavoratori che hanno annunciato il loro voto favorevole dicendo “voto sì al fascismo, perché questo è fascismo”.
Dopo la giornata di oggi, in cui alla soddisfazione espressa dai sindacati di lotta ha fatto da contrappeso il silenzio assordante di Fiat, Confindustria e degli altri sostenitori del “sì”, chiusisi in una riflessione interna dopo i primi e vani tentativi di rivendicare come una vittoria un risultato che ha lasciato solo delusione e preoccupazione al Lingotto e nelle sedi di Cisl e Uil, da domani prende il via il tempo delle dichiarazioni, delle proposte, delle iniziative che delineeranno la via futura dello stabilimento di Pomigliano, ancora oggi tutta da costruire.
E, allora, dando uno sguardo alla complessiva situazione della crisi economica, dell’occupazione, della linea politica del Paese, non è troppo paradossale pensare che la classe lavoratrice di questo Paese, non solo di Pomigliano, debba auspicare che il Sergio Marchionne continui sulla sua linea arrogante e sprezzante dei diritti dei lavoratori.
Se, infatti, Fiat decidesse di chiudere lo stabilimento campano, mantenendo la produzione della Panda in Polonia o, magari, delocalizzando ancora in Serbia, esploderebbe la grande contraddizione sistemica rimasta nascosta in questi primi due anni di crisi.
Fiat mostrerebbe il suo volto autentico di multinazionale pronta a spostare produzioni e lavoratori come pedine utili solamente a garantire i profitti e i guadagni milionari dei gruppi dirigenti, Cisl e Uil si paleserebbero in tutta la loro incapacità di difendere i lavoratori qualora salti la politica del firmare qualsiasi accordo venga loro sottoposto, il Governo dimostrerebbe di non avere gli strumenti, con la politica che persegue e per le pressioni che subisce da ben delineati poteri forti, necessari a gestire la crisi senza rimanere succube dei diktat dei manager, degli speculatori e dei tecnici di Bruxelles, la Cgil stessa si troverebbe di fronte alla necessaria presa di coscienza che i tempi della concertazione con il “capitalista buono” (così venne dipinto Marchionne) pronto ad aiutare i lavoratori è finito e, forse, non è mai esistito.
Uno scenario che, certamente, potrebbe essere visto come catastrofico.
Ma analizzando due anni di crisi economica vissuti navigando “a vista”, si capisce che questra strada porta solo ad un costante logoramento della classe lavoratrice, dei disoccupati che non trovano più un’impiego (ricordiamoci le previsioni che danno la disoccupazione in crescita fino a fine 2011) e dei lavoratori con sempre meno lavoro, diritti e salario.
Un’esplosione della contraddizione sistemica interna alla crisi stessa, un big bang sociale, avrebbe, forse, la capacità di riportare al centro della vita di questo Paese il popolo, i cittadini, i lavoratori; avrebbe, forse, la forza di portare queste classi sociali a bypassare i meccanismi palesatisi come inutili in questi due anni.
Riuscirebbe, quindi, a riportare al centro del dibattito e dell’azione politica parole come “nazionalizzazione”, “riconversione”, “pianificazione”, “solidarietà”, che, ad inizio millennio, furono la carta vincente giocata da quei 10mila e più lavoratori argentini che posti di fronte alla drammaticità della crisi e della bancarotta, ruppero letteralmente le catene delle loro fabbriche per tornarne in possesso, avviando quei percorsi di “autogestione” e “cooperazione” che li permisero e li permettono ancora oggi di avere un salario, un lavoro sicuro, dei diritti, condizioni di lavoro migliori, democrazia, la possibilità di aver salvato più del 100% dei posti di lavoro avendo, col tempo, assunto nuovi colleghi e compagni di strada.