«Gli Stati Uniti non accettano la legittimità dei continui insediamenti israeliani. Queste costruzioni violano accordi precedenti e minano gli sforzi di raggiungere la pace. E’ tempo che questi insediamenti si fermino»
Con queste parole il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, poco più di un anno fa, prendeva una posizione netta sulla politica degli insediamenti portata avanti da Israele, specialmente in Cisgiordania.
La risposta dello Stato ebraico negli anni è stata sempre la stessa: posizioni ambigue sulla carta, utilizzo di termini come “tavolo delle trattative”, “apertura al dialogo”, “processo di pace”; per poi nei fatti mantenere con fermezza lo status quo all’interno dei Territori occupati.
La cronaca degli ultimi mesi ha registrato anche scene ufficiali colme di imbarazzo che hanno rischiato di portare alla crisi diplomatica tra i due paesi, come quando lo scorso marzo mentre il vicepresidente degli Stati Uniti, Joseph Biden, appena giunto in Israele per far ripartire le trattative di pace in Medio Oriente, si ritrovò ad essere spettatore della dichiarazione ufficiale con cui il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, rendeva nota la decisione di costruire 1.600 nuovi alloggi a Gerusalemme Est, ovvero quella che i palestinesi vorrebbero diventasse un giorno la capitale del loro Stato.
Lo strappo sembra essere stato definitivamente ricucito con la visita, lo scorso 6 luglio, del primo ministro israeliano a Washington, occasione in cui Israele si è dichiarato di nuovo aperto al dialogo con i palestinesi e Obama, evidentemente rassicurato dall’eloquio di Netanyahu, si è detto: «convinto dell’impegno d’Israele per la pace».
Ma è una storia già letta. L’altalena delle posizioni statunitensi nei confronti della questione palestinese è un dato assodato, dovuto al fatto di trovarsi tra due fuochi: da un lato, l’interesse verso una soluzione politica del conflitto mediorientale che potrebbe dare un nuovo equilibrio all’intera regione, alleggerendo così anche le ostilità di quella parte del mondo islamico che non vede negli Stati Uniti un adeguato impegno nella risoluzione dell’empasse israelo – palestinese; da un altro l’interesse a non infastidire le lobbies ebraiche negli Stati Uniti.
Quello che invece ha incuriosito recentemente l’opinione internazionale è stato il risultato di un’inchiesta condotta dal New York Times che ha reso noto come diverse (almeno quaranta, ndr) associazioni americane negli ultimi vent’anni hanno raccolto fondi per oltre 200 milioni di dollari a favore degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.
Fondi ottenuti tramite donazioni che godono di sgravi fiscali da parte del ministero del tesoro statunitense.
La legislazione americana stabilisce che le donazioni che possono beneficiare degli sgravi fiscali sono quelle destinate ad associazioni senza fini di lucro, purché abbiano finalità educative, religiose o assistenziali. La difficoltà giunge però nel momento in cui bisogna stabilire la natura delle finalità delle azioni di queste associazioni. Si può parlare di finalità assistenziali quando servono ad acquistare alloggi, cani da guardia, giubbotti antiproiettile, mirini per armi da fuoco e veicoli usati per rendere più sicuri gli avamposti nelle zone occupate?
L’argomento, comprensibilmente imbarazzante, ad oggi non è mai stato affrontato con chiarezza dal governo che tramite diversi portavoce ha sempre cercato di barcamenarsi nelle dichiarazioni.
Come dar loro torto quando si viene a sapere che un ente come la Capital atleti foundation, gestita da Jack Abramoff, lo stesso lobbysta colpevole di aver truffato per anni i suoi clienti e di aver pagato tangenti a funzionari pubblici, una volta ha spedito una tuta mimetica da cecchino in uno scatolone con l’etichetta “Costume da nonna salice per la recita di Pocahontas”?
Simone Olivelli