E’ di non più di due giorni fa la polemica scoppiata tra il Ministro dell’Interno Roberto Maroni e il Governatore della regione Marche Gian Mario Spacca (Pd) riguardante un’ipotetica costruzione di un nuovo centro di identificazione ed espulsione su territorio marchigiano.
Spacca ha affermato una “Indisponibilità del Governo regionale a condividere la scelta di realizzare un CIE nel territorio marchigiano“. Il suddetto centro dovrebbe nascere, nelle intenzioni, in via Fossatella a Falconara Marittima, in una zona chiamata ” area logistica esterna ex aeroporto Falconara. Nella lettera di risposta del Presidente della regione Marche al Ministro Maroni, uno dei passaggi più significativi è forse questo :
“Le perplessità maggiori si appuntano, infatti, sulle attuali caratteristiche dei CIE, carenti ad esempio di standard qualitativi gestionali, dove le persone vivono spesso in promiscuità, con insufficiente assistenza sanitaria, legale, sociale o psicologica. Anche il tempo di permanenza nei CIE (fino a 6 mesi) rischia di configurarsi come il superamento dell’elemento di temporaneità tipico dei centri, con un aggravio di costi per lo Stato ed una maggiore difficoltà a gestire i “conflitti” dovuti alla restrizione della libertà personale degli ospiti.”
La diatriba tra Spacca e Maroni riflette forse un problema più ampio; i Cie, secondo diverse associazioni e movimenti, sono sostanzialmente progettati male. La permanenza forzata nelle strutture, indebolisce fisicamente e psicologicamente le persone e questo, con il passare del tempo genera una maggiore intolleranza verso la propria condizione, spesso non certo agiata. Tale intolleranza implica un conseguente comportamento sempre più problematico, che in alcuni casi sfocia in vere e proprie rivolte, più o meno violente.
Il circolo vizioso che si determina, fa sì che avere un centro di identificazione ed espulsione vicino alla propria abitazione possa divenire problematico; è quindi comprensibile che i Governatori locali, Spacca in questo caso, ne osteggino la costruzione. La questione non è di non accettare la vicinanza di immigrati, o di immigrati clandestini, ma è non accettarli se si trovano “in quelle condizioni di vita”. E’ d’altra parte un atteggiamento ragionevole, in quanto risulta complesso determinare esattamente chi siano le persone rinchiuse nei Cie. Tanti onesti lavoratori, pur clandestini, ma a priori non è possibile escludere la presenza di criminali ed eventualmente di che pasta siano tali criminali. Un conto è uno che ruba per fame ( moralmente nemmeno definibile come “criminale”) un altro, interpretando il pensiero dei cittadini, è uno spacciatore o uno stupratore. E se dovesse scoppiare una rivolta…
Inoltre, talvolta, il pregiudizio insito in alcune parti della società aumenta la percezione della presenza criminale. Se una o due ( o anche dieci) pecore sono nere, certo non lo deve essere per forza tutto il gregge. Ed anche questo atteggiamento psicologico contribuisce probabilmente nell’essere refrattari alla costruzione dei Cie. Inoltre, sei mesi come tempo massimo, sono giudicati tanti, troppi, in quelle condizioni. Il tunisino che ha protestato da Lunedì fino ad oggi sul tetto del centro di Torino era alla scadenza del tempo di permanenza. E’ pur vero che la sua protesta era più incentrata sul non voler tornare in patria forzatamente, ma, in ogni caso, la sua iniziativa è arrivata a pochi giorni dalla fine dei sei mesi, non prima, quando forse il malessere ha raggiunto il suo apice. Sei mesi, sono il tempo massimo, ma sarebbe auspicabile che, se devono essere espulse, le persone soggette a provvedimento, ci rimangano non più di pochi giorni. In ogni caso, la permanenza prolungata deriva spesso anche dalla difficoltà ad identificare la reale provenienza dell’immigrato.
Il nodo della questione è però che se tutte le Regioni o i Comuni, adottassero l’atteggiamento di Spacca,pur che quest’ultimo sia del tutto comprensibile, i clandestini sarebbero, ancor di più, abbandonati al loro destino, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Va quindi trovata una soluzione; più barriere all’entrata, sarebbero probabilmente una manna nella gestione del fenomeno dell’immigrazione clandestina. Ridurre il numero di persone da gestire , pare di poterlo dire senza tema di smentita, renderebbe le operazioni sicuramente molto più agevoli. Quelle però che già sono sul territorio, andrebbero trattate appunto come individui, e non come detenuti.
Un clandestino non è un criminale, pur macchiandosi del neo introdotto reato attinente. Ma, si vuole sostenenre, non può essere trattato, nel suo essere trattenuto in strutture apposite, come un carcerato “di lungo corso” che si è macchiato di chissà quali reati, perchè, chiaramente, ciò influirà sulla sua psicologia, sulla sua resistenza, portandolo poi a compiere atti dimostrativi che magari non sempre sono condivisibili, ma che sono forse il suo unico modo di dimostrare il disagio a cui è soggetto.
A.S.