“Pilade”: potere, dolore, idealismo, ferocia.

Amare e comprendere Pier Paolo Pasolini significa, in un certo senso, non respingere la parte peggiore di sé ed accettarla con la stessa pietà con cui si compatirebbe una bestia incattivita da quel male che esiste nel mondo così come nell’animo di ciascuno di noi.

Il modo in cui nacque l’opera in questione è curioso. Pasolini si ritrovò a tradurre per Vittorio Gassman l’ “Orestea” di Eschilo. Pilade ha, nell’opera del celebre tragediografo greco, il ruolo di una persona saggia, taciturna, amichevole. Il silenzioso Pilade proferisce una sola battuta all’interno dell’ “Orestea” ed è proprio da quell’unico verbo che esce dalla sua bocca che Pasolini prende spunto per scrivere la sua prima tragedia.

Il teatro di Pasolini è, innanzi tutto, un teatro della parola, dove per “parola”non si intende solo la parola proferita, bensì anche quella non detta, quella lasciata in sospeso. Il teatro di Pasolini procede dal verbo e vive nel verbo: la parola è quasi scenografia tutta dell’opera.

L’elemento politico è sicuramente presente nella tragedia pasoliniana. In un certo senso i tre personaggi principali sono portavoce di tre ideologie diverse, che si sviluppano intorno alla tematica del potere. Oreste rappresenta la democrazia, il personaggio di Pilade è metafora di un comunismo vecchio stampo mentre la figura di Elettra simboleggia la tirannia, la tradizione che vuole perpetrare. Parlare di una condanna del potere in quanto tale è, probabilmente, eccessivo. L’idea del potere corrompe tutti e tre i personaggi, li attrae, li ferisce, li divide e li unisce. Il “Pilade” non sembra voler tanto esortare il fruitore a condannare il potere quanto a capire che in quest’ultimo risiede un tipo di male subdolo, perverso, crudele, insito nell’essere umano. Alla tematica politica si mescolano le tragedie personali dei singoli personaggi. È molto facile uscire dal teatro credendo di non aver capito nulla di ciò che si è appena visto, ma probabilmente lo scopo dell’opera non è far si che il fruitore abbia modo di comprendere, bensì quello di lasciargli qualcosa dentro, di fargli sentire, percepire ancor prima di afferrare.

Non si può spiegare di cosa parli “Pilade”. “Pilade” non va compreso, bensì interpretato. “Pilade” è la ragione e l’idealismo che si perdono nella dimensione del sogno, è il dolore umano che si manifesta con una crudezza al tempo stesso gratuita e velata. Pilade, Elettra, Oreste ed il contadino che si dividono la scena, sembrano essere figure quasi oniriche, inafferrabili, incomprensibili. Sarebbe riduttivo cercare di individuare il ruolo del protagonista e quello dell’antagonista: in “Pilade” il male ed il bene crescono in seno a tutti i personaggi. Probabilmente l’unico che non è toccato dal germe del male è il giovane contadino che si trova spesso al seguito di Pilade. Probabilmente è la sua genuina ignoranza a scagionarlo da tutto ciò che condanna un essere umano e da tutto ciò che lo eleva. Ancora una volta il tema della conoscenza che è causa di ogni dolore e di ogni slancio benevolo? Forse; ma di certo non si esaurisce in questa tematica la profondità dell’opera pasoliniana, che lascia allo spettatore una sensazione molto più aspra di un semplice “amaro in bocca”. Ci si alza dalla poltroncina del teatro e ci si accorge di essere soli, di avere un buco nell’anima, di poter infilare la mano dentro al proprio spirito.

Esistono spettacoli che si sviluppano fuori dal fruitore al fine di dilettarlo, divertirlo o commuoverlo, ma ce ne sono altri che prendono vita all’interno dello spettatore stesso, che intessono la propria trama atroce ed impervia intorno all’animo di chi assiste alla tragedia per renderlo parte integrante della tragedia stessa.

L’interpretazione di Oreste Braghieri, nei panni di Pilade, riesce ad esprimere bene la figura di una sorta di intellettuale rassegnato. Antonio Piovanelli, Manuela Kustermann e Salvatore Porcu hanno reso efficacemente i propri personaggi.

Tanto di cappello a Bruno Venturi, regista che ha deciso di assumersi l’onere di portare in scena un’opera di così difficile fruizione.

Martina Cesaretti