La predica di Tettamanzi ai giornalisti: la Chiesa invita alla responsabilità di fronte ad una politica lontana (discorso integrale)

In occasione della festa di San Francesco di Sales, l’arcivescovo di Milano Tettamanzi parla ai giornalisti nell’incontro “Faremo (ancora) notizia. La verità, via per la vita e il futuro del giornalismo”, che si è tenuto oggi 29 gennaio presso la sede dell’Istituto dei ciechi di Milano. Come relatori vi erano anche Enrico Mentana, Chiara Pelizzoni e Marco Tarquinio.
Tettamanzi non sfugge la questione del rubygate e invita i giornalisti, e sopprattutto i giovani giornalisti, ad un giornalismo responsabile che percorra la strada della verità e si faccia strumento della vita in comune. Di seguito le sentite parole dell’uomo di Chiesa.


Un saluto fraterno e cordiale a ciascuno di voi presente a questo incontro che si rinnova ogni anno in occasione della festa di san Francesco di Sales, il vescovo proposto dalla Chiesa come patrono dei giornalisti. Oggi mi è offerta la possibilità di dialogare un poco con voi che svolgete un lavoro così carico di responsabilità e così influente sulla vita delle persone e del Paese. Ringrazio Rodolfo Masto e l’Istituto dei Ciechi che cordialmente oggi ci ospitano.

Saluto i giovani, in particolare gli studenti dei master di giornalismo delle Università Cattolica, Statale e Iulm di Milano e i ragazzi dell’Istituto Maggiolini di Parabiago. Sono contento siate qui: l’informazione, la comunicazione sono attività che riguardano tutti e coinvolgono tutta la vita, sono pensiero prima che tecnica, sguardo sulla realtà prima che preoccupazione di ricavarne una cronaca. Il vostro interesse per le riflessioni sui temi della comunicazione lascia ben sperare per un futuro all’insegna di una più lucida consapevolezza e di una più forte responsabilità circa la comunicazione stessa.

Ho ascoltato con interesse i giornalisti affermati, responsabili e stimati che hanno voluto condividere a voce alta la propria esperienza: mi hanno aiutato a comprendere meglio quanto sia impegnativo il vostro lavoro, quanto può influire sul bene delle persone, quanto sia possibile svolgerlo bene.

Ringrazio anche Chiara per la passione, la competenza, il rigore e l’entusiasmo testimoniati: il futuro nel lavoro e nella vita non può che essere tuo e di giornalisti che condividono queste caratteristiche. Mi chiedo: può veramente avere futuro il giornalismo se non avrà come protagoniste persone animate da questo stile?

Vorrei anch’io portare un contributo a questo dibattito a partire dalla mia personale esperienza di cittadino utente dei media, di cristiano e di vescovo. In particolare vorrei considerare con voi gli effetti che gli attuali stili della comunicazione hanno nella vita della gente. Vorrei inoltre riflettere su come è possibile proporre il racconto intelligente della vita reale delle persone, chiedermi cosa significhi narrarla secondo verità, e infine cercare con voi il contributo che dobbiamo offrire per sospingere il Paese fuori dalla situazione difficile e critica in cui si trova.

La realtà l’avete presentata voi stessi e su questa vorrei ora esprimere alcune mie impressioni.

La prima impressione riguarda l’immagine del Paese offerta dai mezzi di comunicazione oggi. Non mi pare azzardato affermare che questi media vecchi e nuovi presentano un Paese che sembra preda di un litigio isterico permanente. Personalizzazione, esasperazione, drammatizzazione, contrapposizione sono il “sale” con il quale si tenta di dare sapore a una realtà che, altrimenti, si ritiene destinata alla inevidenza. Se ogni pioggia è un diluvio, se tutti gli immigrati sono delinquenti, se ogni politico è corrotto, se ogni influenza è pandemia, come potrà vivere sereno chi di tv e giornali è utente abituale e non ha mezzi e capacità per esperire personalmente la realtà presentata dai media con questo stile fuorviante? Come potrà non provare ansia nei confronti della vita quotidiana?

Per la verità non manca chi sperimenta la sensazione opposta, rimanendo quasi anestetizzato davanti a ciò che accade. Se è sempre emergenza, non sarà mai emergenza, nemmeno nelle evenienze reali: la tensione non può essere sostenuta a lungo e finisce per generare assuefazione. Molti poi provano una specie di straniamento dalla realtà, una distanza scettica da ciò che non sperimentano direttamente, riducendo così il reale solo a ciò che materialmente è sottoposto ai propri sensi.

Gli stili prevalenti della comunicazione tendono inoltre a causare rassegnazione. Sono tante le persone che si stanno rassegnando alla mediocrità. Assistiamo all’eccessiva esibizione del privato in pubblico. Troppi programmi sono fondati sull’esposizione oltre misura dell’intimità delle persone. Una tendenza che, andando oltre i reality, sta contagiando ogni campo della comunicazione generando nello spettatore mimetismo, rassicurazione, rinuncia a pensare a se stesso come a qualcosa di grande. Non sempre è un privato esemplare quello mostrato: spesso è stereotipato, caricaturale se non addirittura patologico e grottesco. Anzi, se fosse normale non sarebbe interessante mostrarlo. Pare si voglia diffondere l’idea che “così fan tutti”. Confrontarsi con simili “modelli” non contribuisce al benessere personale e alla crescita collettiva, ma – riempiendo gli occhi di banalità e di mediocrità – spinge il pubblico a rassegnarsi alle proprie “debolezze”, non certo a uno scatto in avanti, a un moto di sano orgoglio.

Si è spinti alla rassegnazione anche dall’enfasi eccessiva che è data a ciò che nel Paese non funziona, a ciò che non è come dovrebbe essere. I processi di comunicazione tendono a dare evidenza agli episodi negativi, procedendo poi, per analogia, ad associarne altri: ecco, ad esempio, che, scoperto un episodio di grave malasanità, ne viene immediatamente mostrato un secondo e magari un terzo. È certo importante che i media svolgano anche questa funzione di denuncia, ma occorre porgere queste notizie con responsabilità, così che non appaia che nulla funziona, che tutto è corrotto, che la situazione è irreparabile. Quanto contribuiscono i media a creare e ad alimentare il clima di rassegnazione che si respira?

Alcune realtà del nostro Paese non sono rassegnate ma costruttive, positive verso il futuro. Il clima dannoso prima descritto, però, tende ad isolarle e, quel che forse è peggio, a renderle poco “notiziabili”. Siamo allora chiamati a essere vigilanti: non mancano quanti in questo clima di sfiducia e scoraggiamento trovano l’ambiente ideale per perseguire interessi legittimi ma privatistici, raggiunti senza far crescere il bene comune, o interessi ricercati a proprio vantaggio ma a danno di altri. Questo modo di agire è evidentemente inaccettabile, e lo è ancor più quando proviene da quanti del bene comune dovrebbero essere garanti e promotori.

So bene che le notizie – di cronaca bianca o nera, di politica o economia, di cultura o sport – che hanno il sapore della normalità raramente troveranno posto: ma, mi domando, se viviamo in tempi in cui si possano definire “normali” alcuni stili che riscontriamo in diversi ambiti della vita sociale. In politica, ad esempio, da tempo non sono in discussione i temi che dovrebbero realizzare il bene comune adesso, in questo delicato frangente storico, dentro questa congiuntura economica segnata pesantemente dalla crisi.

Dai mezzi di comunicazione emerge una classe politica che tende a mettere al centro della propria azione le vicende personali dei suoi più diversi protagonisti. Certo, nessuno chiede di tacere episodi, fatti, denunce, indagini che riguardano quanti sono chiamati ad animare e a guidare il Paese e dai quali tutti attendono esemplarità, nel pubblico e nel privato. Ma, mi domando: giornali e tv contribuiscono davvero a costruire e a promuovere la pubblica opinione quando si lasciano contagiare dal clima avvelenato e violento causato da una politica che dimentica o sottovaluta i bisogni reali e concreti delle persone?

I problemi veri del nostro Paese non sono certo quanto da mesi leggiamo nelle cronache politiche. Non si tacciano gli scandali (veri o presunti) ma l’informazione politica non può, non deve esaurirsi al racconto di scandali. Guardiamo con onestà e intelligenza al Paese reale che è sempre meno raccontato, guardiamo a chi è in difficoltà ed è sempre più solo, alle forze del bene così poco testimoniate dai media, all’esemplarità positiva così raramente mostrata.

Il racconto presuppone la ricerca di un senso e incoraggia la valutazione: come scriveva Paul Ricoeur, è una vera “palestra etica”. Solo il racconto dunque, e non una valanga di “fatti” bruti, esibiti in nome del diritto di informazione senza tener conto degli effetti che produrranno sulle persone, può costituire la condizione di quello “scambio di esperienze” che è alla base della comunicazione autentica. Una simile comunicazione non è pura “trasmissione” di notizie, bensì costruzione di un bene comune attraverso la testimonianza della verità.

Ed eccomi ora a un punto che ritengo centrale per questo nostro incontro: riguarda il dire la verità e il testimoniarla. Testimoniare la verità non può ridursi al fedele racconto di un fatto. Troppo poco. Cosa significa “dire la verità” per un giornalista? Cerco la risposta in un testo antico e quanto mai attuale: il testo sacro della Bibbia. Questa fin dalle prime pagine ci dice che la verità (a-letheia) giunge all’uomo mediante un processo continuo disvelamento. La verità di Dio non si offre solo all’intelligenza, e quindi non è possibile scoprirla solo con la ricerca razionale, nella forma del possesso. La verità si offre a noi nella forma di un Dio che si china sull’uomo dentro un processo d’amore, di cura, di crescita. Lo stile è quello di un popolo che si lascia condurre verso la sua liberazione (Antico Testamento), è quello di un Dio che si fa Uomo offrendo a tutti il suo amore perché tutti lo vivano e ne diano testimonianza (Nuovo Testamento).

Vorrei riascoltare con voi un breve brano del Vangelo di Luca:

Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?””. In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. […]”. Quando gli inviati di Giovanni furono partiti, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? […] Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via. Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui (Luca 7,18-27).

Testimoniare la verità significa inserire i fatti della realtà in un più ampio contesto, gli episodi in un orizzonte di senso. Questo il procedimento che Gesù ci spiega nel brano evangelico. La domanda di Giovanni il Battista è alta: il figlio del falegname, quell’uomo di Nazareth, è il Messia o no? Gesù non risponde affermando la verità (“sì, sono io”) bensì offre a quanti lo interrogano fatti concreti, alcuni miracoli compiuti davanti ai loro occhi quali segni messianici da riconoscere, così come la Sacra Scrittura li aveva presentati: indicatori della venuta del Figlio di Dio.

C’è poi un’ulteriore domanda che Gesù pone a tutti i suoi ascoltatori e a noi con loro: “Che cosa siete andati a vedere?”. Egli si riferisce anzitutto all’esperienza di Giovanni impegnato a battezzare sulle rive del fiume Giordano, interrogando chi aveva vissuto quell’esperienza. Gesù con la sua domanda “che cosa siete andati a vedere?” interroga anche noi e ci propone un salto di qualità, nella vita, prima che nella professione. Qual è il senso complessivo dei fatti che quotidianamente viviamo, incontriamo, raccontiamo? In quale contesto complessivo dobbiamo inserirli? Ponendo la domanda, Gesù obbliga i suoi interlocutori a una riflessione: la verità non si esaurisce nei fatti puntuali, non è “sequestrata” da una serie frammentata di episodi.

Quello di Gesù è un metodo per comunicare secondo verità. È nella realtà che si manifesta la verità, ma la realtà non può essere utilizzata come una “cava di pietre” da saccheggiare per costruire a nostro piacere un orizzonte di senso preordinato, aprioristico. Purtroppo pare proprio questo uno degli stili dominanti dell’informazione, specie in politica: usare gli episodi della realtà per dare forza a questo o a quello schieramento politico, per consolidare questa o quella costruzione artificiale della realtà. E a rimanere esclusa sono la preoccupazione e la responsabilità di contribuire al processo di scoperta della verità a beneficio degli utenti dei media: persone reali con bisogni reali.

Rispetto ai fatti della cronaca c’è un “oltre” verso il quale dobbiamo aiutare lettori e spettatori ad alzare lo sguardo. Di questo abbiamo bisogno, di questo ha bisogno il Paese. La politica pare che stia abdicando a questa responsabilità: non lo deve fare chi vuole essere un comunicatore veramente libero, chi vuole restare fedele al proprio mestiere, chi vuole essere – in una parola – giornalista responsabile.

Un “oltre” che per gli strumenti di comunicazione ecclesiali e di ispirazione cattolica dovrà condurre al confronto con la verità ultima di Gesù Cristo; un “oltre” che per i mezzi di comunicazione laici (di qualsiasi ispirazione politica o filosofica, di proprietà di qualsiasi imprenditore) sarà la consapevolezza dell’influenza che, con il proprio lavoro, i giornalisti esercitano sulla vita delle persone, sul loro giudizio sulla realtà, sulle loro decisioni e scelte… Un giornalista – sia cattolico che laico – testimonia la verità se non ostacola ma permette alle persone di accedere alla verità complessiva, più grande: di quel determinato evento, della realtà che sta vivendo, del momento storico che si sta attraversando, della propria esistenza.

Sto forse esagerando sull’istanza etica? È troppo etico questo compito per un “semplice” giornalista? Direi proprio di no! So bene però di prospettare una missione che è ritenuta pura utopia da chi pensa che il giornale sia un oggetto che il giorno dopo “è buono solo per incartare il pesce” e da chi pensa che un telegiornale debba servire solo per tenere alti gli indici di ascolto e per vendere pubblicità.

Carissimi donne e uomini impegnati nel giornalismo: vi auguro di saper riconoscere ogni giorno le grandi responsabilità che esercitate nella professione, di essere consapevoli del contributo che potete dare o negare alla vera realizzazione delle persone e del bene del Paese. E lo stesso augurio lo estendo a tutti gli attori dei processi di comunicazione: gli editori, i lettori, il mondo della pubblicità…

Il modo prevalente di fare comunicazione – cioè la rappresentazione isterica del reale – falsa la percezione della realtà e causa disagio concreto. E si realizza così un tragico paradosso: la comunicazione, quella facoltà che consente all’uomo di diventare e di essere ciò che veramente è, si sta invece volgendo contro di lui degradandone la caratteristica fondamentale: la sua umanità.

Per scacciare questi sentimenti negativi che i processi di comunicazione generano, dobbiamo ripartire proprio dalla verità, dall’innestare il racconto fedele degli episodi della realtà dentro un orizzonte alto e autentico di senso complessivo.

Il clima di scoraggiamento e di depressione di cui abbiamo detto all’inizio, rischia di diventare cronico, intrappolando il Paese e i cittadini nei propri mali, bloccando o rallentando la crescita e lo sviluppo delle comunità e delle persone.

Da dove ripartire? Quale scossa potrà svegliare il Paese dal suo torpore? Sono sicuro che i giornalisti possano fare davvero tanto. Ci sono modelli alternativi di vita da raccontare. Ci sono persone e comunità che attendono di essere narrate perché hanno intuizioni, progettano, studiano, lavorano, conseguono successi.

Mostriamo il Paese che “ce la fa”, mostriamo l’azione di quanti operano per uscire dalla crisi morale, sociale, economica, politica. Mostriamo la loro volontà, la loro passione, la forza, la generosità, la lungimiranza: atteggiamenti quotidiani ma che diventano straordinari in un momento in cui l’ordinario pare essere sempre più l’egoismo, l’avidità, le scorciatoie, la corruzione, l’immoralità…

Non serve creare ingenue rubriche di buone notizie, ma recuperare passione per la vita reale della gente, aiutarla a ripartire, sostenerla nel suo darsi da fare. La situazione pare speculare a quella che l’Italia ha sperimentato alla fine della seconda guerra mondiale: distruzioni, limitazioni delle libertà, macerie, povertà, frammentazioni, depressione… Noi però oggi non ne siamo tutti consapevoli. I nostri padri erano consci della gravità della situazione perché toccavano con mano quelle macerie, la povertà li privava del cibo quotidiano, la costrizione della libertà li limitava anche fisicamente. Noi invece rischiamo di essere vittime del benessere che ci rende ciechi e sordi, tanto da non accorgerci di quante disuguaglianze ancora affliggano il mondo e di quanto le nuove povertà, morali e spirituali anzitutto, le ferite del corpo e ancor più dell’anima impoveriscano e spengano la nostra stessa umanità.

Raccontare la realtà aiuta a comprendere il reale per quello che è in profondità, a dare a ogni fenomeno il nome vero. La verità è l’unica via che possa condurci alla consapevolezza del momento presente, è l’unica via che possa spingere a quel sussulto collettivo capace di toglierci dalle secche in cui siamo arenati. Titolare giornali e telegiornali con i sintomi del male o con pretestuose ricostruzioni della realtà per nascondere la gravità della situazione non è la strada per uscire dalla crisi. Per recuperare un clima complessivo più sereno, nella comunicazione e soprattutto nel Paese, oltre a denunciare con forza i sintomi del male, proviamo – con maggiore decisione – a ricercarne onestamente le cause, proviamo a dare voce a chi è credibile e ha intuito una cura per la guarigione e magari già la sta sperimentando con successo.

Le promesse di libertà generate in continuità dalla cultura dell’autonomia assoluta hanno prodotto un mondo sociale e culturale povero. Altra è la strada da percorrere: si tratta di ritrovare la passione per il lavoro, la famiglia, la città, i percorsi di crescita personali. Alziamo lo sguardo al mondo, spingiamolo fino al cielo: non lasciamoci rapire e imprigionare solo da quanto sta entro il giardino di casa.

Torniamo a guardare al futuro, alla possibilità di un futuro migliore. Questa tensione ideale che permetterà al Paese di ripartire non è assente affatto dalle nostre comunità: solo non è oggetto di attenzione e di narrazione e non viene adeguatamente amplificata.

A voi giornalisti auguro di vivere con passione la vostra professione, di avere a cuore il vostro futuro, quello della vostra famiglia e del vostro Paese:  così riconoscerete e metterete in circolo le energie positive che già sono operanti tra noi. La passione riconosce la passione: vale per il giornalista che vuole raccontare la realtà secondo verità, vale anche per l’utente dei media che davanti alla passione rimane affascinato e ne è mosso interiormente.

Lasciamoci contagiare dalla passione “sana”, sapendo che è sempre in agguato il rischio di scambiare la passione con il livore o l’accesa militanza di una parte, in contrapposizione con le altre. La vera passione – quella di Gesù ce lo insegna in modo insuperabile – non è mai contro qualcuno ma sempre a beneficio di tutti.

Parlandovi con il cuore e la responsabilità di un pastore d’anime mi sento di offrirvi ancora qualche suggerimento che so corrispondere ai vostri desideri più profondi. La passione vi sia da guida nel lavoro: sarete così immunizzati dalla tentazione di perdervi nel racconto delle banalità che altri potranno usare per distrarre il Paese dalla necessaria presa di consapevolezza dei propri mali. Siamo in una situazione di crisi: assumiamoci per primi il compito di fare qualcosa per uscirne, visto che in troppi stanno abdicando a questo dovere morale caratteristico dei buoni cittadini. Aiutiamo la gente a reagire alla depressione e all’immoralità, stimoliamola a desiderare un Paese migliore, mostrando che è possibile costruirlo ed evidenziando chi già lavora per un futuro migliore.

O il giornalismo diverrà protagonista di un simile racconto oppure, se cederà completamente alle logiche di potere, si degraderà fino all’irrilevanza, come è stato per altre funzioni un tempo fondamentali della società.

La passione positiva di tanti giovani, la loro competenza, la loro voglia di sperimentare, di giocarsi personalmente e di costruire futuro ci siano di esempio e ringiovaniscano anche la nostra stessa passione.

Abbiamo bisogno di giornalisti responsabili, ne ha bisogno il Paese. Dunque, non rassegniamoci! Perché? Trovo la risposta in Dostoevskij:

perché io ho visto la verità, perché io ho visto e io so che gli uomini possono essere belli e felici senza perdere la possibilità di vivere sulla terra. Io non posso e non voglio credere che il male sia la condizione normale degli uomini (Il Sogno di un uomo ridicolo).