Una telefonata nel cuore della notte, un respiro dannatamente familiare che dopo sette lunghi anni ritorna a tormentare la vita di Beth, in fuga da un destino avverso, riportando a galla oscure ed atroci verità, sepolte in un passato mai dimenticato. Ombre di una notte senza fine che solo con l’aiuto di Neil Sheridan, ex agente FBI, possono disperdersi nella luce di un futuro non più segnato dalla paura ma dalla serenità di un nuovo amore.
Legami pericolosi, in uscita a febbraio per Leggereditore, è l’accattivante e avvincente romanzo d’esordio di Kate Brady, un romantic suspance ricco di tensione e sensualità, capace di catturare l’attenzione del pubblico fin dalla prima pagina. Dialoghi brillanti, indagini perfettamente descritte, approfondimento psicologico sono solo alcuni dei punti di forza di questo intenso thriller, vincitore del prestigioso Rita Award 2010 come opera prima. Un’avventura di ampio respiro, dura e struggente al contempo, in cui voglia di riscatto, speranza in un futuro migliore e desiderio di poter di nuovo ritornare ad amare, si mescolano insieme a comporre il ritratto di storia di sicuro successo.
Di seguito in anteprima un estratto dei primi capitoli di Legami Pericolosi.
Bighorn Butte, Washington
A4.473 chilometri di distanza
Una notte fredda con appena una falce di luna, la foschia
che fermenta sull’acqua e si rapprende nei canali di scolo.
Duemila metri più in basso Seattle scintillava avvolta nella
nebbia, ma su quella collina isolata l’aria era sottile e limpida,
impregnata di un’immobilità lugubre. Non c’erano luci,
a parte il fascio bluastro di una torcia alogena. Nulla si muoveva,
tranne le rassicuranti bobine di un vecchio registratore
a cassette. Nessun suono, solo i singhiozzi soffocati di una
donna che stava per morire.
Chevy Bankes abbassò gli occhi su di lei. Lila Beckenridge,
così diceva la sua patente, con una foto che ritraeva i suoi zigomi
affilati e i capelli raccolti in uno chignon. Doveva essere
una ballerina, aveva stabilito Chevy mentre le legava le caviglie:
piedi callosi, corpo longilineo, un leggero odore di sudore
coperto dal profumo.
E aveva dei bei polmoni, urlava molto bene. Davvero all’altezza
del suo ruolo nello spettacolo che aveva inizio lì quella
sera.
Chevy si fermò, le ginocchia deboli sotto l’enormità di quel
momento. Era già stato con altre donne prima, aveva già ucciso,
ma mai con un simile scopo. Non aveva mai ammazzato
una donna per perseguitarne un’altra, o reciso una vita per
un intento che andasse oltre il suo bisogno immediato. Da
quel punto di vista, la ballerina era unica. La prima.
Colto da una sorta di gratitudine perversa, s’inginocchiò
per accarezzarle la guancia. Lei gli sputò.
«Troia!» Si pulì il viso con il risvolto della camicia, ringhiando,
e fu sopraffatto dalla rabbia. Come osava? Non era
nei piani…
Chi ha ucciso il pettirosso? Io, disse il passero, con la freccia e con
l’arco, io ho ucciso il pettirosso.
Chevy si coprì le orecchie con le mani. «No» disse, ma
quella canzone si faceva strada, una malinconica canzoncina
popolare che gli ronzava nell’orecchio come una mosca. Diede
manate all’aria intorno alla sua testa, cercando di scacciarla,
poi prese lo slancio con il piede e diede un calcio a quella
donna a terra. La mascella si spezzò col rumore del legno che
scoppietta nel camino, un gemito di dolore le straziò il petto.
La canzone si dissolse.
Chevy aspettò un attimo, sforzandosi di respirare. Controllo.
Silenzio. Non poteva esserci nessuna canzone quella sera,
non quando finalmente si stava attuando un piano programmato
da sette anni. Tremando si scoprì le orecchie, con gli occhi
spalancati, come se potesse essere in grado di scorgere
quella voce e di tenerla lontano se fosse tornata. Lanciò un’occhiata
alla cassetta, c’erano dieci o forse altri quindici minuti
di nastro, poi guardò l’ora. Era tardi e lui doveva ancora fare
una telefonata. Inoltre la sua sorellina stava aspettando e non
le piaceva starsene da sola. La povera Jenny aveva già trascorso
gran parte della sua giovane vita senza nessuno, aspettando
Chevy.
«Non ci vuole ancora molto, Jen» sussurrò, come se lei po-
tesse sentirlo. Spense il registratore e prese la scatola che aveva
portato con sé sulla collina. Era lunga sessanta centimetri
e profonda trenta, non molto pesante ma scomoda. La posò
per terra accanto alla ballerina e l’aprì. Le palline di polistirolo
scivolarono ai suoi piedi mentre tirava fuori il contenuto
fragile e, strato dopo strato, giro dopo giro, rimosse la carta
velina fino a quando…
«Santo cielo.» AChevy si bloccò il respiro, anche se aveva
già visto prima quel viso: occhi scuri e profondi, un sorriso
vacuo, folti riccioli di capelli veri. Deglutì e passò al setaccio
i documenti dell’assicurazione contenuti nella scatola, accertandosi
che quella fosse la bambola più antica della collezione:
Benoit del 1862. Testa e busto in porcellana biscuit, corpo in legno.
Palpebre che si aprono e si chiudono, meccanismo raro. Stima:
$ 40.000-50.000. Chevy inclinò la bambola verso l’alto poi
verso il basso, su e giù, su e giù, osservandole gli occhi. Nonostante
ciò che c’era scritto nel documento dell’assicurazione,
gli occhi di quella bambola non si erano mai chiusi. Erano
rimasti aperti e vigili, avevano osservato qualsiasi cosa.
Chi l’ha visto morire? Io, disse la mosca, con i miei piccoli occhi.
«Smettila» scattò Chevy, digrignando i denti. Rimase ad
ascoltare per cinque secondi, poi fece un sospiro. Doveva andare
avanti: c’era del lavoro da fare su quella donna. Posò la
bambola per terra, a un paio di metri di distanza per evitare
gli schizzi, poi estrasse un taglierino dalla tasca e tornò dalla
ballerina.
Lei gridò e Chevy si fermò. Merda, se n’era quasi dimenticato.
Pigiò Play e Record contemporaneamente poi appoggiò un
ginocchio accanto alla spalla della donna. I gemiti si propagarono
fino al nastro, alterati dalla mascella fratturata ma comunque
magnifici, col terrore che raggiungeva il suo picco mentre
lui si chinava sulla vittima. Adesso solo a un grido da lei.
Col cuore che galoppava, Chevy iniziò la sua opera, lancian-
do spesso occhiate alla bambola e lottando per mantenere la
mano salda. Quando terminò, si mise in ginocchio e si lasciò
pervadere dalle grida. Qualche minuto, non di più, poi click.
Il nastro era finito.
Aprì gli occhi e guardò la sua opera. Un po’ pasticciata,
ma nel complesso ben riuscita. Prese la sua Ruger .38 da un
borsone e pulì la tempia della donna. Lei non se ne accorse
neppure, le grida non erano che un intralcio al suo respiro,
come se sapesse che ormai era finita. Chevy calcolò due centimetri
e mezzo verso l’alto, fece un segno con una matita per
gli occhi e piazzò la canna della pistola precisamente in quel
punto. Premette. Un silenzio beato seguì quel colpo. Chevy
trattenne il respiro, ma sapeva che quella canzone adesso
non sarebbe ricominciata. Non ricominciava mai quando le
grida erano buone.
Slegò la ballerina e le sistemò gli arti a suo piacimento, poi
passò dieci minuti a raccogliere le cose che la Scientifica
avrebbe impiegato ore a cercare: taglierino, pistola e proiettili,
registratore, corda e picchetti. Infilò tutto nel suo borsone
da palestra. Ogni pezzo di polistirolo, fino all’ultimo. Poi, dopo
averne infilato uno in tasca, tirò fuori la mano e l’involucro
di un cioccolatino cadde per terra. Se ne accorse e lo raccolse,
mentre il suo petto pulsava di sollievo. L’intelligenza
era la chiave, essere attento era cruciale. Un po’di fortuna non
guastava.
Chevy diede un’ultima occhiata intorno e s’incamminò
giù per la collina, portando con sé il borsone e la scatola, fermandosi
a controllare il cellulare della ballerina ogni venti
metri. Era a metà strada quando l’apparecchio emise un eccezionale,
piccolo suono: c’era rete.
Il suo battito accelerò. In Virginia era mezzanotte, ma non
aveva importanza. Quello era il momento che aveva tanto
aspettato.
Che il gioco abbia inizio.
Arlington, Virginia
Mezzanotte, la casa era avvolta dal silenzio e la bambina
dormiva già da un pezzo. Una lampadina da cento watt illuminava
un materassino giallo nel seminterrato, l’aria densa
dell’odore di sudore e di cuoio, il solito silenzio segnato dai
suoni illogici della violenza. Grugniti, colpi, respiri ansimanti
per riprendere fiato. Di tanto in tanto lo stridere delle suole
di gomma.
Il telefono.
Beth Denison aggrottò le sopracciglia. Fece un respiro profondo,
l’aria si depositò sui suoi polmoni come sabbia bagnata,
poi si ricompose. Inspira, concentrati, trova l’equilibrio. Colpisci.
Il pugno colpì un sacco da boxe di settanta chili. Seguì un
forte gancio sinistro, un calcio rotante che la fece girare fino a
generare un impatto che avrebbe schiacciato la trachea di un
aggressore. Schivò il contraccolpo, ruotò su sé stessa e piantò
il tallone all’altezza media in cui sarebbero stati i testicoli di
un uomo.
Il telefono smise di squillare.
Puntò le mani sulle ginocchia, ansimando. Nessun messaggio
inquietante questa volta, niente gemiti o respiri affannati.
Forse quel tipo che le telefonava si stava stufando. Raddrizzò
la schiena e distese le mani, sussultando mentre allungava
ogni nocca indolenzita. L’indomani avrebbe scontato il fatto
di non aver indossato le protezioni. Quella sera aveva bisogno
di puro esaurimento fisico per soffocare i pensieri, sul futuro
della casa d’aste, Evan e le telefonate che riceveva da un cretino
che a quanto pareva aveva un elenco telefonico, qualche
minuto libero la sera e un’attitudine alla perver…
Uno squillo.
Si voltò di colpo e trasformò quel dondolante sacco da boxe
rosso in una macchia confusa, con il tonfo del colpo che le
pulsava nelle orecchie. Però non era abbastanza forte, riusci-
va ancora a sentire il telefono. Quattro squilli, cinque. Quella
volta non aveva intenzione di riattaccare.
«Maledizione.» Spalancò le braccia e salì le scale a due a
due, con l’intenzione di… di fare cosa?
Alzare la cornetta e raccontare al tizio che cosa aveva addosso?
Dirgli di andare al diavolo? Lanciò un’occhiata al telefono
della cucina, guardando perplessa il numero che compariva
sul display. Prefisso 206. Seattle, di nuovo, ma non
riconosceva quel numero.
Sei squilli, sette. Scattò la segreteria telefonica, con la voce
allegra di Beth. ‘Salve. Qui casa Denison, o meglio, la nostra
segreteria. Sapete cosa fare.’ Beeep.
«Ciao, bambola.»
La voce era bassa e chiara. Sentì un fremito di paura.
«Beth, so che sei lì. Rispondi al telefono.»
Beth? Il fremito si trasformò in un pugno. Lanciò un’occhiata
preoccupata verso la camera da letto di Abby. Nessun suono,
le coperte erano immobili. Fortunatamente Abby era sprofondata
nel tipo di sonno che la natura riserva ai più piccoli.
«Be-eeth. Sono passati sette anni. Non vuoi parlare con me?»
«si bloccò il respiro. No. Per favore, no. Non poteva essere.
«Sì, Beth.» E quella voce si fece più bassa. «Sorpresa.»
Il passato che tornava a farsi vivo, fredde gocce di memoria
che le colavano lungo la schiena.
«Scommetto che pensavi che non ti avrei mai trovata» disse
lui. «Ma sono un uomo pieno di risorse. A dire il vero, il
sono a tal punto da aver preparato dei regali molto speciali
per te. Non vedo l’ora di farteli vedere.» Fece una pausa, come
se sapesse che a quel punto Beth avrebbe dovuto reggersi
allo schienale della sedia per non cadere, e che il suo mondo
all’improvviso stava precipitando.
Idiota, disse Beth a sé stessa. Era naturale che lui lo sapesse.
Quindi non rispondere. Limitati a ignorarlo e non alzare la…
«A ogni modo, Beth, come sta tua figlia?»
Beth afferrò il telefono. «Bastardo.»
«Ah, eccoti qui. Per un attimo stavo iniziando a preoccuparmi».
Delle scintille rosse esplosero dietro ai suoi occhi. «Co…
come?»
«Come, cosa? Uhm, immagino che tu non sappia nulla.
Be’, non mi meraviglia, naturalmente. Perché a qualcuno sarebbe
dovuto venire in mente di contattarti per riferirti la notizia?»
«Di che cosa stai parlando?»
«Libertà. Ricompensa. Prendermi ciò che mi è stato negato
per tutti questi anni.»
Sembrò che la stanza si muovesse. Beth non era neppure
più in grado di dire se i suoi piedi fossero piantati per terra
o no. Chiuse gli occhi. Pensa, pensa. Perché, anzi no, come la
stava chiamando? «Non capisco» disse.
«Sono sicuro che troverai tutta la storia su internet in un
batter d’occhio. Per il momento, basta dire che sono libero. Lo
sono da un po’ormai, a dire il vero, e ho utilizzato questo tempo
per definire i dettagli del nostro ricongiungimento.»
Beth sentì la nausea risalire fino in gola, ferma lì come un
ronzio. Libero? Aspetta. Mantieni il controllo. Se era uscito di
prigione, c’era solo una ragione per cui la stava chiamando.
Ed era impossibile che lui avesse intenzione di rinvangare il
passato per ottenere ciò che voleva. «Chiamo la polizia. Racconterò
tutto…»
Lui ridacchiò. «No, non lo farai. Credi di aver ingannato
tutti, con la tua bella vita e la tua bella figlioletta, ma te ne sei
dimenticata: io conosco i tuoi segreti.»
Beth afferrò la cornetta così forte che i tendini del suo braccio
furono scossi dai crampi. «Tu non sai niente.»
«Davvero?» chiese lui. Beth sentì un click e per un attimo
pensò che avesse riattaccato. Poi lui ricominciò a respirarle nell’orecchio,
si sentiva un lieve ronzio sulla linea. «Facciamo un
riepilogo: so che cos’è successo a Anne Chaney. So perché hai
lasciato Seattle per trasferirti dall’altra parte del Paese, a Arlington,
in Virginia.» Fece una pausa. «So della tua figliolet…»
Beth ebbe un sussulto, poi cercò di trattenerlo. Troppo tardi.
«Ehi, era molto bello, Beth. Fallo di nuovo.»
«Smetti…» sputò fuori quella parola ma si trattenne. Zitta,
adesso. Non fare alcun suono. Si ricordò quanto lui amasse i suoni.
Urla, puttana. Grida per me.
«Fammi sentire di nuovo la tua voce, Beth» disse lui.
«Non devi fare poi molto, non ancora. Solo qualche piccolo
suono per dare inizio all’opera…»
Beth scagliò il telefono dall’altra parte della stanza. Rabbia
e paura si contorcevano come serpenti nel suo stomaco e lei si
sforzò di respirare, lasciando che la furia si dimenasse. Maledizione,
non doveva perdere la testa. Anche a piede libero, lui
non costituiva una grande minaccia per lei, Beth aveva il doppio
delle carte in tavola. Doveva essere lui ad aver paura. Inoltre
non l’aveva chiamata dai dintorni. Prefisso 206… Seattle.
Sentì la realtà che si posava sul fondo del suo stomaco. Quello
non era un sogno. Non era un brutto ricordo che proveniva
dalle viscere di un’altra vita. Quello non era lo scherzo telefonico
di un tizio con davanti un pacco di birre e un elenco telefonico,
in testa un numero che gli piaceva e che continuava a
chiamare premendo REDIAL. Quello era Chevy Bankes.
Beth sentì forte nel petto il bisogno di vedere Abby. Fece le
scale di corsa e infilò la testa nella sua cameretta. Abby dormiva
profondamente nel chiaro di luna, aveva un gattino di peluche
stretto contro la pancia e un cane vero disteso sulle caviglie.
Il cane mosse la coda e si rotolò felice sulla schiena,
ignaro del brivido che percorreva le vene di Beth mentre lei se
ne stava lì a guardare lo stomaco di Abby che si alzava e abbassava:
un respiro, due respiri, tre. Tre era il numero magico.
Beth contava sempre tre respiri di fila prima di andare a letto
la sera.
Quella volta ne contò dieci.
Tornò nel corridoio, ricacciando indietro le lacrime con il
palmo della mano. Non piangere. Lo sa dio, le lacrime non hanno
mai risolto nulla. Quella cosa non sarebbe dovuta accadere, ma
Beth aveva sempre saputo che era possibile. Bankes non era
l’unico ad avere un piano. Inspira, concentrati, trova l’equilibrio.
Fece appello ad anni di Thai Boxe per ritrovare la stabilità, poi
andò in camera da letto. Trascinò una sedia a dondolo accanto
a un’enorme cassettiera Chippendale. Era un pezzo del primo
periodo New England con una cornice piena d’intagli,
tutti i blasoni originali e una patina ricca e scura. Eppure non
aveva comprato quel cassettone perché fosse antico o bello.
L’aveva comprato per le cornici.
Salì sulla sedia a dondolo e tirò una decorazione che sporgeva
sulla cornice in alto a destra. Cigolò e poi si spalancò.
Ne uscì un foglio ripiegato. Beth lo infilò sotto la fascia che
aveva al polso e infilò la mano in quello scompartimento segreto.
Le sue dita si serrarono intorno al calcio di una Glock
9 mm, fredda e potente, abbandonata lì ma mai dimenticata.
La sollevò, allungò entrambi i polsi e puntò la lucina rossa del
telefono dall’altra parte della stanza.
Era in grado di farlo. Se fosse stato necessario, per il bene
di Abby, l’avrebbe fatto.
Abbassò la pistola, scese dalla sedia e aprì la lista di nomi
che aveva infilato sotto la fascia. Cheryl Stallings, sua cognata.
Due avvocati, dei quali uno aveva redatto il testamento di
Beth, mentre l’altro aveva la reputazione di vincere a ogni costo.
Tre mercanti di antichi mobili americani, ciascuno dei
quali aveva offerto del denaro in contanti per alcuni dei pezzi
più raffinati della collezione privata di Beth e li avrebbe acquistati
senza fare domande. Scorrere quella lista riuscì a calmarla,
era la prova tangibile che lei aveva un piano e le
risorse necessarie per attuarlo. Fece un respiro profondo.
Nonostante l’ora, prese in mano il telefono, poi si fermò. I nu-
meri nove e uno sembravano brillare più degli altri. Chiamo
la polizia, il 911. Racconto tutto. Ma stava bluffando e Bankes
lo sapeva. Non poteva telefonare alla polizia. Non poteva fare
quello a Abby.
Si calmò e bisbigliò una preghiera. Chiese perdono, nel caso
in cui dopotutto Dio esistesse davvero. Si schiarì la gola e
costrinse la sua voce ad assumere il tono calmo e composto
che aveva perfezionato anni prima. Compose il primo numero
della lista.
La prima bugia sarebbe stata la più difficile.
Kate Brady
Legami pericolosi
Leggereditore
Uscita febbraio 2011
Pagine 352
Prezzo 12,00 euro
Valentina De Simone