30 anni fa moriva Bob Marley, indimenticato re del reggae

In memoria di Bob Marley – Il tempo vola, impietoso, e sono anche ricorrenze come queste a ricordarcelo: ad alcuni sembrerà difficile crederlo, ma sono passati ben 30 anni da quando Bob Marley ha lasciato un vuoto incolmabile nella musica mondiale. Era partito dalla Giamaica, sua patria e luogo d’elezione, ma credeva che prima o poi lui e tutti gli africani esuli, ultimi eredi dei padri che furono trasportati come merce dai bianchi schiavisti, sarebbero tornati in Africa, terra d’origine e al contempo terra promessa. Era questo il credo del movimento Rastafari, di cui Marley fu il più grande apostolo, e soprattutto il credo che stava alla base della sua sterminata – all’epoca rivoluzionaria, ora amabilmente classica – produzione discografica. Tutta, ovviamente, all’insegna del ritmo sincopato e suadente del reggae.

Anche se tanti cantanti europei e americani hanno preso ampiamente spunto da Marley e dal reggae – molti rendendo anche giustizia al genere: dai Police ai Clash, fino a Eric Clapton e la sua famosa rivisitazione di I shot the sheriff – l’unico ad averne davvero incarnato lo spirito è stato lui, Bob. Forse perché  le onde della Giamaica e la rilassatezza di un’isola immersa nella natura ce le aveva nella carne, forse perché l’incazzatura di un popolo sfruttato e sottomesso per secoli ce le aveva nella testa e nel cuore, ricamando non la sua anima sulla musica che componeva, ma la musica che componeva secondo la sua anima.

Figlio di una coppia mista, Robert Nesta Marley rifiutò sempre le discriminazioni di cui egli stesso era stato oggetto, dichiarandosi solo devoto ad un’entità superiore: “Mio padre era bianco e mia madre era nera. Mi chiamano mezza-casta, o qualcosa del genere. Ma io non parteggio per nessuno, né per l’uomo bianco né per l’uomo nero. Io sto dalla parte di Dio, colui che mi ha creato e che ha fatto in modo che io venissi generato sia dal nero che dal bianco”. E nonostante lui e i suoi fan fossero ancora affamati di “canzoni di redenzione”, la sua fede religiosa – integra, onesta, radicale, come tutto nella sua vita – lo portò a scegliere di non amputarsi l’alluce, permettendo al melanoma che aveva al piede di prendere corpo e ucciderlo, l’11 maggio 1981. Quella stessa morte, che lo ha consegnato alla vita eterna, nella mente e nel cuore dei posteri.

Roberto Del Bove