Pizzo Berlusconi, Brusca: Seicento milioni al mese alla mafia

Silvio Berlusconi con le stragi del ’93 non c’entra niente. A ribadire le dichiarazioni, rilasciate un paio di settimane fa dal boss Giuseppe Graviano, è stato ieri l’altro pentito di mafia Giovanni Brusca.
Rispondendo alle domande dei pubblici ministeri nell’udienza del processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra in occasione della mancata cattura del boss Bernardo Provenzano sul finire del 1995, Brusca ha sostenuto che l’attuale presidente del Consiglio non ebbe nulla a che vedere con quelle stragi che servirono a Cosa Nostra per mandare un messaggio allo Stato: chi non voleva più morti ammazzati, avrebbe dovuto pagare venendo incontro alle richieste della Mafia.

“Pagava 600 milioni” – Il nome di Berlusconi però è comunque venuto fuori nel corso della deposizione di Brusca: il premier, allora imprenditore appena sceso in politica con il partito Forza Italia, avrebbe pagato un vero e proprio ‘pizzo’ per diversi anni. I soldi, quantificati dal pentito in seicento milioni mensili, andavano a rimpinguare le casse dei boss Stefano Bontade e Giovanello Greco. Una tassa che serviva come “messa a posto“, che tradotto nel gergo dei mafiosi significa un modo per non avere guai.
Berlusconi avrebbe anche provato a rifiutarsi di pagare la somma, ma in cambio ricevette un attentato: “Aveva smesso di pagare – ha continuato il pentito – e gli venne fatto un attentato. Il mandante era Ignazio Pullarà. L’attentato fu programmato perché ricominciasse a pagare il pizzo”.
L’episodio però non piacque al capo di Cosa Nostra Totò Riina che reagì così: “Si arrabbiò e tolse la guida del mandamento a Pullarà, affidandola a Pietro Aglieri. Fu proprio Ignazio a raccontarmi questi fatti. I rapporti con Berlusconi sono durati anche successivamente“.

I contatti politici – Brusca ha anche parlato dell’intenzione di arrivare a Berlusconi per farlo diventare, dopo Nicola Mancino in quegli anni ministro degli Interni, il nuovo referente politico della Mafia. A fare da intermediario Vittorio Mangano, conosciuto come lo stalliere della residenza di Berlusconi ad Arcore ma in verità noto – a quanto pare a tutti tranne che al suo datore di lavoro – boos mafioso.
Tentativi, di cui già parlò Graviano, che però sarebbero stati vani: “Dopo l’arresto di Riina ho contattato Vittorio Mangano, il cosiddetto stalliere di Arcore, perché si facesse portavoce di alcune nostre richieste presso Dell’Utri e Berlusconi. Lui – ha dichiarato Brusca – era contentissimo di poterci ristabilire i contatti e ci spiegò che si era licenziato dall’impiego ad Arcore per non creare problemi a Berlusconi, ma che tutto era stato concordato anche con Confalonieri e che aveva ancora con loro buoni rapporti”.
Il pentito ha poi reso noto quale fosse, in quegli anni, l’interesse principale per la mafia: “Gli volevamo chiedere tra l’altro di attenuare i rigori nei trattamenti dei detenuti a Pianosa e Asinara e di alleggerire il 41 bis“.

Mancino terminale nello Stato – Per quanto riguarda la presunta trattativa avviata tra lo Stato e la Mafia per far cessare le stragi, Brusca ha confermato che l’interlocutore era il ministro degli Interni Nicola Mancino: “Riina arrivò con un papello contenente una serie di richieste. Successivamente appresi che il soggetto interessato a fare cessare le stragi era Nicola Mancino. Da lui arrivò la richiesta: ‘Cosa volete per finirla con le stragi?’“.
A tal proposito, da segnalare la pronta replica dell’allora ministro: “E’ un ‘pentito’ itinerante tra i vari uffici giudiziari – ha dichiarato Mancino a La RepubblicaRipete per vendetta falsità nei confronti di un ex ministro dell’Interno che nel periodo 1992-93 fece registrare, tra i tanti arresti di latitanti, anche quello di Riina. Non desidero dire altro”.

Simone Olivelli