Giustizia ingiusta. Due anni rinchiusa in una prigione afghana con l’accusa di adulterio dopo aver denunciato di aver subito una violenza sessuale. Questa la tragica storia di Gulnaz, una ventenne che afferma di aver denunciato lo stupro per ottenere giustizia, ricevendo in cambio un’accusa per adulterio, minacce di morte da parte dei fratelli e una condanna al carcere per 12 anni. Il suo stupratore era stato condannato, in prima istanza, a 16 anni; nell’ultimo processo però, la pena era stata ridotta a 9 anni di prigione. Una “giustizia ingiusta” avrebbe condannato la vittima a più anni del suo carnefice. L’intervento della società civile però, ha fatto sì che la pena della povera Gulnaz fosse ridotta a 2 anni. In seguito a una raccolta di firme infatti, il presidente Hamid Karzai, ha deciso di graziare la giovane.
Ancora prigioniera. Gulzan è finalmente uscita dal carcere, quel carcere in cui è stata rinchiusa per due anni assieme alla figlia nata dalla violenza. La giovane però, è ancora una donna “imprigionata”. Vive, sorvegliata ventiquattrore su ventiquattro, in una casa per sole donne, sotto il controllo del ministero afghano per gli Affari Femminili. Ma Gulzan è, soprattutto, prigioniera del pregiudizio. Le autorità le hanno raccomandato di sposare il suo stupratore per evitare la persecuzione sociale cui sono sottoposte le donne violentate. I fratelli minacciano di uccidere lei, il suo violentatore e, perfino, la loro figlia se non dovessero convolare a nozze.
La democrazia non si esporta. Troppe volte Gulzan è stata vittima della violenza: quando è stata stuprata, quando è stata ingiustamente rinchiusa in carcere e ora che non è libera di scegliere della sua vita e di quella di sua figlia, ora che è costretta a sposare il suo stupratore. Un’altra storia che dimostra l’inesportabilità della democrazia che è, invece, un processo che va costruito giorno per giorno.
Giovanna Fraccalvieri