Si chiama Edith Pearlman, ha settantaquattro anni e di mestiere fa la scrittrice. In Italia da poco è uscito il suo ultimo e più importante libro, una raccolta di racconti a voler essere precisi. La raccolta in questione si intitola e per quelli che di mestiere fanno i critici è uno dei libri più importanti della scorsa stagione letteraria d’oltre oceano. Forse addirittura il più importante, tanto che si è meritato oltre a recensioni entusiastiche anche il prestigioso National Book Critics Circle, un premio che nelle scorse edizioni ha visto trionfare gente del calibro di Junot Diaz, Hilary Mantel Roberto Bolano e Jennifer Egan tanto per capirci.
Paragoni importanti. Paragonata a John Updike o Alice Munro la Pearlman propone storie cariche di non detti, personaggi in genere borghesi in cerca di una collocazione, sorpresi e ancora più facilmente spiazzati dal caso. Le storie si dislocano nel tempo, tra la seconda guerra mondiale, il trittico di racconti Se l’amore fosse tutto e seguenti, Vaquita, Giorno Terribile, fino ai giorni nostri, in uno spazio che va dalla russia Zarista fino ai sobborghi di Boston passando per Manatthan, il Maine, Gerusalemme e la Londra dei bombardamenti nazisti. Una delle tematiche fondamentali è la questione ebraica in particolare il senso di non appartenenza degli ebrei, che sembrano incapaci, in queste storie, di trovare un luogo in cui stanziarsi. Una condizione, quella di esule, che la scrittrice fa propria “Penso che tutti gli scrittori, e forse tutta la gente, siano in un certo senso esuli, nostalgici, in cerca di un proprio posto. Gli ebrei lo sono letteralmente, come molti altri. E no, in Israele non stavo cercando una patria: al di là del mio senso di esilio, la mia casa è Brookline, Massachusetts”. Un libro importante dunque e un’occasione per scoprire una nuova autrice che in non più tenerissima età si è affacciata alle luci della ribalta. E forse c’è di che essergliene grati.