Cosa è successo ieri pomeriggio, poco dopo le 14.30? Che il presidente del Consiglio (nonché segretario del Pd), Matteo Renzi, si è palesato a sorpresa nello streaming di Montecitorio che ha immortalato il confronto tra la delegazione del Pd e quella del Movimento 5 Stelle. Un “colpo di teatro” che ha sclerotizzato l’attenzione di media e osservatori sul match più atteso della giornata, confermando le abilità “illusionistiche” del premier. E svelando anche le capacità comunicative dei suoi interlocutori, primo tra tutti, il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio.
Come ha ben detto il giornalista del Fatto Quotidiano, Andrea Scanzi, però, il confronto tra i democratici e i pentastellati – inconfutabilmente “gustoso” dal punto di vista mediatico – rischia di risultare politicamente “sterile”. Il faccia a faccia di ieri arriva, infatti, a diverse (troppe) settimane di distanza dal famoso “patto del Nazareno” che ha incatenato il Pd a Forza Italia, costringendolo in una rete da cui sarà difficile svincolarsi. Il sentore è che il negoziato sull’Italicum sia, insomma, già stato chiuso e che l’interlocuzione di ieri con i 5 Stelle sia stata concessa più per un fatto di immagine che per una reale disponibilità a costruire insieme la nuova legge elettorale.
Lo si è capito quando il premier-segretario, pur ascoltando con attenzione le istruzioni di Danilo Toninelli (estensore del progetto di legge targato 5 Stelle), lo ha poi bollato come “Complicatellum”, accogliendo con scarso entusiasmo la proposta di puntare sia sulle preferenze positive che su quelle negative. “Ricorda un po’ il meccanismo del Grande Fratello”, ha ironizzato Renzi. E lo si è capito ancora di più quando il pressing di Luigi Di Maio (sempre chirurgico e controllato) ha un po’ indisposto il premier, che ha iniziato a infilare una serie di recriminazioni che nulla avevano a che fare con l’oggetto dell’incontro.
Nel merito: i punti di divergenza tra le due delegazioni sono indiscutibilmente vistosi. Il Pd vuole garantire la governabilità, aprendo anche alle coalizioni “brancaleonesche”. Che il Movimento si rifiuta, invece, di accettare, memore degli sfaceli del passato. Di più: per i pentastellati le eventuali alleanze (incardinate sui programmi) si possono svelare all’indomani del voto, mentre i democratici sostengono che, per un fatto di trasparenza, gli elettori debbano essere informati preventivamente sulle possibili “unioni” di governo.
Il nodo sulle preferenze appare, poi, quanto mai intricato: l’accordo tra il Pd e Forza Italia non le contempla e, per quanto Renzi abbia ieri promesso di rifletterci su, appare altamente improbabile che possa alla fine inserirle all’interno della riforma. Per non parlare delle circoscrizioni su cui democratici e pentastellati sembrano pensarla diversamente, nonostante puntino al medesimo obiettivo: quello di accorciare le distanze tra eletto ed elettore.
L’appuntamento è stato rimandato a data da destinarsi, alla presenza degli uffici legislativi che potranno “scornarsi” su tecnicismi e cavilli. Con loro ci sarà il front man del Pd, Matteo Renzi, e quello del Movimento, Luigi Di Maio, che – spalleggiati dai loro semi-muti sodali (oltre a Toninelli, solo Alessandra Moretti ha preso ieri la parola per qualche secondo) – potranno nuovamente dare prova della loro verve agonistica. Per un “finale di partita” avvincente (almeno dal punto di vista mediatico), nel quale il Movimento 5 Stelle, dopo la mossa dello “scongelamento”, potrebbe riservare ancora qualche sorpresa e costringere il Pd a trazione renziana in una posizione scomoda.