Molto presto, potrebbe bastare un semplice prelievo sanguigno per stabilire se si va incontro al rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer nel giro di tre, massimo cinque anni, ossia con largo anticipo rispetto al momento in cui iniziano a manifestarsi i primi sintomi di declino cognitivo.
Queste sono le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della Georgetown University di Washington che, in un articolo pubblicato da Nature Medicine, spiegano quali potrebbero essere le tracce fondamentali per prevedere l’insorgenza della malattia con un’accuratezza pari al 90%.
I ricercatori hanno analizzato i campioni ematici provenienti da 525 individui volontari, tutti di età superiore ai settant’anni, seguiti per cinque anni. Nel corso di quest’arco di tempo, in particolare dal terzo anno in poi, sono stati individuati diversi soggetti i quali hanno iniziato a manifestare sintomi riconducibili alla malattia; ne sono stati quindi selezionati 53 i cui campioni sanguigni sono stati confrontati con quelli provenienti dal gruppo di controllo composto da un numero pari di soggetti nei quali non era comparso alcun segnale di declino cognitivo.
Le indagini hanno consentito di concentrarsi su specifici bio-marcatori (parametri medici) che, secondo il parere degli scienziati, potrebbero essere letti ed interpretati come dei chiari indizi del successivo sviluppo della degenerazione cognitiva: nello specifico, gli esami avrebbero identificato un gruppo di dieci lipidi i cui livelli varierebbero a seconda della condizione del paziente.
I ricercatori hanno spiegato che tali molecole, la cui concentrazione risulta significativamente più bassa nei pazienti affetti da Alzheimer, sono parte della membrana cellulare neuronale ed inizierebbero a decimarsi ancor prima che i sintomi iniziali facciano la propria comparsa.
Infine, gli esami basati sul quadro lipidico hanno portato ad una distinzione corretta per il 90% tra individui con o senza deficit cognitivi dando modo così di verificare l’accuratezza del test.
Nonostante non frenino e nascondano l’entusiasmo, annunciando che si tratta di un vero passo avanti nella ricerca su questa malattia, gli autori del lavoro sottolineano comunque come la cautela sia d’obbligo e come i risultati necessiteranno di conferme ulteriori attraverso sperimentazioni su campioni più ampi e individui più giovani, che potrebbero essere condotte già nel giro di due anni.
Howard Federoff, neurologo presso la Georgetown University e principale autore dello studio, ha spiegato come il test potrebbe rivoluzionare l’intero approccio alla malattia: “…questo è vero non soltanto perché consentirebbe ai pazienti, alle famiglie e ai medici di gestire tempestivamente e con maggiore preparazione e sicurezza la malattia, ma anche perché imprimerebbe una spinta fondamentale alla ricerca su farmaci e cure destinati a pazienti sani ma in prospettiva di sviluppare il morbo nel giro di pochi anni”.
Al momento non esiste alcun tipo di trattamento preventivo per l’Alzheimer, salvo le norme che costituiscono un po’ la chiave generica per contrastare diverse patologie legate all’avanzare dell’età come la corretta alimentazione e l’esercizio fisico. Ma si sa che la prevenzione è una delle strade fondamentali da percorrere in medicina e potrebbe esserlo ancora di più per una malattia che, secondo gli scienziati, sembra destinata a diventare la vera epidemia di domani, con i malati che si triplicheranno entro il 2050, reclutando nuove leve tra la generazione adolescenziale.