Teatro Argentina: carcere e isolamento in scena

argentinaIl Teatro Argentina apre la stagione 2014 con un evento volto ad approfondire i mali del nostro tempo, aprendo le porte alla comprensione reciproca tra differenti categorie del tessuto sociale, dimostrando come siano tutte ugualmente utili, in evoluzione, e come il fatto di rendere possibile il dialogo tra di esse possa contribuire in larga misura alla crescita personale di ogni individuo. Il Carcere di Rebibbia, notoriamente l’istituto di pena considerato il più “duro” della città di Roma, apre le sue porte per far uscire in questi due giorni un gruppo di 40 detenuti, tra cui anche persone destinate a lunga detenzione, perché possano recitare il dramma (in parte commedia) Viaggio all’isola di Sakhalin, ideato da Laura Andreini Salerno e liberamente tratto dagli scritti sul tema di Anton Cechov e Oliver Sacks. La regia è di Valentina Esposito in collaborazione con l’autrice del testo. In scena il 19 e 20 settembre, ma con dispiacere avvisiamo che i posti sono ormai tutti prenotati: quel che ci preme qui approfondire è l’implicazione sociale e politica di un fenomeno che, lo speriamo, sembra essere in espansione sia in Usa che in territorio europeo. A livello nazionale, il carcere di Rebibbia sembra ora essere all’avanguardia nel dare possibilità culturali e di crescita personale ai suoi detenuti.

Dalla Siberia a Rebibbia – L’opera si intreccia seguendo due filoni: quello che ricalca in particolar modo gli appunti che abbiamo dell’esperienza professionale di Cechov nelle carceri siberiane, dove seguì come medico alcuni detenuti che mostravano misteriosi segni di mali  fisici da cui si è affetti solo in condizione isolamento, e quello della realtà vissuta dai reclusi “veri” che dopo lunghi corsi di teatro in carcere sono approdati sul palco. Difficile distinguere i due fili del discorso: la problematica comune sembra travalicare tempo e lunghi spazi per far identificare tra di loro alla perfezione persone dall’esperienza ovunque simile. E il pubblico stesso è invitato a fantasticare sulle proprie reclusioni interiori di qualunque tipo, e a porsi la domanda dell’ultimo atto: è in fondo meglio guarire, o restare con parte delle proprie percezioni atrofizzate, espediente utilizzato in genere da un organismo appunto per non provare dolore?

L’interrogativo politico e sociale – Deve restare un diritto inalienabile della persona, quello della ricerca della felicità di cui parla la nostra Costituzione? Vale, dunque, anche nel caso in cui siamo condannati a scontare una pena detentiva per aver infranto il patto sociale? Queste domande aprono ad un punto di vista che non è più quello del carcere come “perdita di tempo”, come arresto di ogni azione ed evoluzione, di ogni ricerca di senso: quello che di solito chiamiamo “isolamento”.
Deve dunque essere un diritto, la possibilità di crescere anche in carcere? Noi dopo la prima di ieri sera vogliamo essere fiduciosi, abbiamo visto sul palco persone da ovunque provenienti (per lo più italiani ma non solo) recitare a livelli professionali avanzati, senza dilettantismi, senza che ci siano stati buonismi da facile ingaggio. Soltanto perché il tema era confacente, si prestava ad esser “sentito” da tali persone in particolare? Questo lo si esclude, in considerazione del fatto che già da alcuni anni la compagnia del Centro Studi Enrico Maria Salerno, che gestisce i corsi, porta in scena opere teatrali di vario stampo, sempre con elevati risultati. E apprendiamo dalle statistiche che la percentuale di carcerati che, scontata la pena, tornano a delinquere scende dal 65% al 6% tra quanti hanno potuto partecipare ad un valido percorso culturale, di questo o altro genere. Interessanti, a questo proposito, anche le iniziative che riguardano percorsi di meditazione in carcere, sempre a Rebibbia.

La reazione delle autorità – Deve insomma rientrare tra i doveri istituzionali il compito di dare possibilità evolutive e culturali a persone che, con probabilità confermate dalle statistiche, per lo più non avrebbero commesso reati se avessero avuto questa opportunità già fuori? O forse a priori bisognerebbe che fosse maggiormente incrementata la chance in più data dall’istruzione?
Interrogativi lasciati aperti, per ora, anche dalle autorità: il presidente Giorgio Napolitano, invitato, non è venuto, ma ha inviato una accorata lettera di congratulazioni al teatro mandando in sua vece due rappresentanti: Donato Marra ed Ernesto Lupo, i quali, invitati sul palco a spettacolo finito, hanno preferito astenersi da commenti.
Assente anche il sindaco Ignazio Marino, che ha inviato un messaggio di apprezzamento riferito sia allo spettacolo attualmente in scena, che al film “Cesare deve morire”, girato a Rebibbia da Fabio Cavalli e vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino.
La strada sembra ancora in salita, per lo più affidata a iniziative private, e molti dubbi tuttora restano.
A noi resta nell’orecchio il grido che abbiamo sentito quando alla fine si è fatto buio e il sipario è sceso: un “Bravo, nonno!”, che ha squarciato il silenzio dal centro della sala lasciandoci tutti attoniti per alcuni istanti.