Matteo Garrone ha scelto il Festival di Cannes per presentare la sua nuova, particolare ed originalissima scommessa. Lasciato da parte il consueto spazio urbano, con le sue contraddizioni e i suoi simbolismi, Garrone omaggia la tradizione letteraria napoletana con la sua personale versione de Lo cunto de li cunti, opera del ‘600 di Giambattista Basile scritta in dialetto. In particolare, il regista reinterpreta le novelle La cerva fatata, Lo polece e La vecchia scortecata.
Filo conduttore delle storie, il tema del desiderio, delle aspirazioni dell’essere umano che spesso, proprio per la sua natura viziosa, provoca la sofferenza di coloro che ama e segna la propria condanna. E’ da qui che emerge tra le righe una critica alle vecchie generazioni che, preda dell’egoismo, soffocano i propri figli (La regina) o non sono in grado di amarli o proteggerli (La pulce), abbandonano i loro cari per capriccio, alla ricerca di un altro da sé (Le due vecchie). E per questo, sarà la nuova generazione a punirli.
Il racconto compie quindi una ricerca a monte, rimarcando la vera l’origine del folklore fiabesco, ripulendolo da ogni eufemismo e stucchevolezza infantile. Nelle fiabe era l’insegnamento morale a prevalere, senza mai lasciare al caso dettagli perversi, spaventosi e sanguinolenti; così scriveva Basile, molto prima dei fratelli Grimm, di Hoffmann e di Andersen.
Fantasy, magia, perversione, erotismo tanto allusivo quanto esplicito, horror di respiro gotico, questi gli ingredienti della pellicola, filtrati con maestria da sontuosi movimenti di macchina, una suggestiva colonna sonora (il premio Oscar Alexandre Desplat per Gran Budapest Hotel ) e una splendida fotografia che richiama tanto il Barocco, quanto i dipinti fiamminghi e pre-raffaeliti.
Unica nota dolente, purtroppo, l’inconsistenza dei personaggi (alcuni più di altri): Salma Hayek, Vincent Cassel e John C. Reilly (Carnage, Chicago), insieme alla giovane Stacy Martin (Nymphomaniac), passando per i cameo di Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini, compongono un cast stellare che resta tuttavia in ombra, senza emergere mai del tutto, confondendosi nell’insieme di una scatola narrativa che scompone e ricompone il racconto come un mosaico, moltiplicando la visione dell’intreccio senza dare un vero e proprio punto di fuga. Motivo questo, forse, dell’accoglienza piuttosto tiepida che il film sta ricevendo tra Festival, critica e pubblico.
Scelta voluta o perdita dell’orientamento? O forse l’obiettivo del regista è in realtà quello di far perdere l’occhio e la mente di chi guarda nell’ambiente, unico vero protagonista della vicenda: le Gole dell’Alcantara in Sicilia, il Palazzo Reale di Napoli, Castel del Monte, Roccascalegna in Abruzzo sono solo alcuni dei luoghi che prendono vita sullo schermo, sospesi in un’atmosfera fiabesca e a primo sguardo artefatta ma tipica e riconoscibile, in cui l’intervento del digitale si riduce al minimo. E’ la bellezza dei panorami italiani quella che si mostra prepotente e maestosa sullo schermo.
Il Racconto dei Racconti incanta, ma spiazza. Per Garrone, alle prese per la prima volta col genere fantasy e con una produzione non italiana, va un sincero plauso: un atto di coraggio, una ventata di freschezza in un cinema nazionale spesso deludente e monotono; un elogio, un atto d’amore verso le tradizioni, la bellezza storica e paesaggistica dell’Italia, quella di cui troppo facilmente ci dimentichiamo.