I temi della democrazia e dell’accoglienza dello straniero, quest’ultima alla prima strettamente connessa, trovano una delle loro più alte declinazioni ne “Le Supplici” di Eschilo. Dopo l’ultima messa in scena del 2009, l’INDA ripropone la tragedia nella lettura di Moni Ovadia. Lo stile dell’artista prorompe e domina sul testo greco. Si tratta di un’operazione di grande seducenza che però, per la complessità dei contenuti del testo originale, forse avrebbe meritato una più profonda riflessione.
La chiave nobilmente folclorica e la cornice popolare – tradizione del cunto e del cantastorie – trovano corrispondenza nella scelta di raccontare la storia per quadri, perdendo così lo sviluppo fluido e armonioso delle situazioni. Un immaginato cantastorie – reso dall’energica voce e presenza scenica di Mario Incudine – introduce e commenta, nell’affascinante scenografia del teatro siracusano, i vari momenti narrativi dello sviluppo della trama. Musica suonata dal vivo accompagna l’azione, onnipresente al punto che potremmo parlare di tragedia musicale e forse con eccessivi richiami al folk siciliano – anche i costumi dei musici e del cantastorie contribuiscono – con note di balcanico.
La lingua in cui si esprimono i personaggi della tragedia è l’elemento distintivo dell’interpretazione ovadiana di queste Supplici. Certo alcune potenti immagini del testo eschileo sono smarrite all’interno della traduzione in siciliano, in metrica per far da testo alla musica, di cui si è detto. Il dialetto si intreccia poi nello sviluppo della messinscena a italiano, greco, egiziano, dando luogo a un multilinguismo che – pur non essendo una novità assoluta: basti pensare, a esempio, a Ellen Stewart alcuni decenni addietro – conferisce allo spettacolo momenti di indubbio fascino, come all’arrivo degli Egizi accade grazie alla forza travolgente della voce di Faisal Taher.
Se questo multilinguismo tradisce in parte il testo originale, penalizzando alcuni messaggi dell’autore, produce peraltro nello spettatore un effetto di spaesamento che conferisce un significato aggiunto all’opera. Non comprendendo a tratti l’idioma si sperimenta così il primo disagio dello straniero, quando solo l’energia insita nelle parole e nel gesto getta il ponte della comunicazione.
In conclusione applausi, e meritati, per tutti gli interpreti: oltre ai già citati, Angelo Tosto, saggio Danao, Donatella Finocchiaro, figlia-Corifea, e Moni Ovadia nei panni di Pelasgo. Una menzione particolare merita il coro nel ruolo del titolo, che con potente fisicità e sonorità dà corpo alle paure di ogni esule in terra straniera. Applausi finali della compagnia, almeno nella replica cui ha assistito chi scrive, anche ad un gruppo di spettatori di colore, rappresentanza dei tanti sbarcati da terre lontane. Per questo siamo sicuri che il nostro Eschilo da Eleusi non se ne avrà a male se, in un impeto di fratellanza mediterraneo-levantina, i nostri autori di questa edizione 2015 lo abbracciano simbolicamente come “omu sicilianu”.
D.S.