Sabato sera da incubo quello che si prospetta per questo fine settimana. Per i più coraggiosi, Rai Movie propone in seconda serata un intramontabile classico del cosiddetto “spaghetti thriller”, nato dalla mente di uno dei registi che ha reso questo genere famoso in tutto il mondo: Dario Argento.
Il Gatto a nove code fa parte della cosiddetta “trilogia degli animali”, cominciata con L’Uccello dalle piume di cristallo nel 1970 e a cui fece seguito Quattro mosche di velluto grigio del 1972. E in quell’epoca, i titoli dei film che in qualche modo richiamassero nomi di animali o numeri prolificarono (La dama rossa uccide sette volte, Una lucertola dalla pelle di donna e così via), segno che ormai qualcosa era cambiato, che il thriller all’italiana aveva ormai assunto la sua leggendaria e imitatissima fisionomia.
L’enigmista cieco Arnò e il giornalista Giordani indagano su diversi omicidi, in qualche modo collegati all’Istituto Terzi, centro di ricerca scientifica per malattie ed alterazioni genetiche: la tesi suggerita dal dottor Terzi e la sua equipe è che un particolare corredo del DNA identifichi l’innata tendenza dell’individuo a delinquere. Motivo questo, che spinge il misterioso assassino ad eliminare tutti coloro che possano identificarlo. Scena cult, la “passeggiata notturna” nel cimitero, sulle splendide note jazz di Ennio Morricone. Non passa inosservata la sensuale e giovanissima Catherine Spaak, nei panni di Anna Terzi.
Sebbene Il Gatto a Nove Code sia solo il secondo film del Maestro della paura, è già possibile ammirare molti dei suoi tratti distintivi, ancora poco esasperati: le lunghe soggettive dell’assassino, le citazioni hitchcockiane ( i più accorti non si saranno fatti sfuggire il bicchiere di latte…), la tensione sdrammatizzata dai momenti ironici ed erotici, il senso di straniamento e di disagio che viene comunicato da diversi elementi. In molti film di Argento, infatti, si tende innanzitutto ad immedesimarsi nel protagonista, detective improvvisato alla ricerca del killer, che per un motivo o per un altro risente e comunica sensazioni di smarrimento; non si tratta di uno straniero in terra italiana, come nel film precedente e in diversi successivi, ma di un enigmista con un particolare tipo di percezione, data la sua cecità. Ma soprattutto non si può non risentire del celebre mosaico urbano in cui il regista romano “ambienta” tutti i suoi film. Un pezzo di Roma, un pezzo di Torino (la sua amata Torino) ed altre numerose città, riconoscibili ma allo stesso tempo parte di un astratto insieme metropolitano.
Un vero peccato che questo film sia costantemente sottovalutato, ritenuto uno dei meno interessanti del regista. Il Gatto a nove code rappresenta senz’altro un terreno di sperimentazione, un fondamentale momento di passaggio tra il primo Argento e il secondo, quello in cui è possibile ravvisare un’originale e sadica maturità espressiva. Un classico da rivedere e riapprezzare.
Buon spavento!
https://youtu.be/10XvgHOOaDg