Erano gli anni della Inter di Ronaldo, eterna incompiuta sempre ad un passo dal successo (con l’eccezione della Coppa Uefa al termine della stagione 1997/98, la stagione del frontale tra il Fenomeno e Iuliano). Tante erano le beffe degli avversari, quante le collere dei tifosi nerazzurri – destinati per altro a soffrire ancora per qualche anno, prima di ottenere copiose rivincite.
In quella Inter, gli scout del tempo portarono quattro giovani francesi, destinati a sorti differenti: uno giocò quasi sempre in Italia (vincendo giusto un paio di coppe Italia), uno vinse parecchio col PSG a fine carriera e un altro vinse quasi tutto col Manchester United.
A me, colpiva maggiormente il più giovane tra essi: per il ruolo (portiere. Non ero ancora abituato a portieri stranieri in nerazzurro), per lo stile (un capello biondo platino che in quel calcio era assoluta novità) e per la data di nascita (uno dei primi a provenire dal mio stesso decennio).
Si trattava di Sebastien Frey, portiere classe ’80 proveniente dal Cannes.
Ai tempi, aveva poco più di 18 anni e sembrava destinato ad un fulgido futuro (magari anche con la maglia della nazionale transalpina, erede ideale – per genio e sregolatezza – di Barthez). Un carattere anche troppo atipico, narrano, e qualche comportamento un po’ sopra le righe (si narra anche di un tuffo fuori stagione in una piscina. Vuota), lo portarono a vivere una carriera senza infamia e senza lode (con una Coppa Italia all’attivo).
A quasi vent’anni da quei tempi (permettetemi di arrotondare per eccesso), Sebastien Frey decide di appendere le scarpe al chiodo – sebbene avesse già rescisso il suo ultimo contratto (con i turchi del Busaspor) a inizio stagione. Tre giorni fa, l’annuncio su Instagram: “E’ arrivato il momento di dirvi grazie… Grazie a tutti per avermi sempre sostenuto nel corso della mia carriera, per avermi aiutato a crescere come calciatore ma soprattutto come uomo! Porterò sempre con me una parte di ogni squadra dove ho avuto l’onore di giocare!!!”. Quindi, in un’intervista al ‘Corriere dello Sport’: “Negli ultimi tre-quattro anni mi sono accorto che questo mondo mi appartiene sempre di meno. Quando ho cominciato a giocare a calcio c’era rispetto. La parola di una persona aveva lo stesso valore di una firma, ora non contano più neanche le firme. I ragazzini, dagli undici anni in poi, hanno in testa le cose sbagliate. Pensano di essere Messi o Cristiano Ronaldo. […] Quando sono andato a giocare all’Inter, era come essere in una famiglia. Non voglio dire che trattassero Frey come Ronaldo, ma a livello umano eravamo tutti uguali. Oggi questo si è perso”.
Protagonista di un calcio che – anche a suo dire – non c’è più, lascia il calcio giocato e ci lascia da soli con tanta nostalgia.
RDV