Un tempo, fu il Tamagotchi. Dovremmo parlarne appositamente, considerando che fece epoca. Si trattava di un piccolo oggetto elettronico che simulava la vita di un animaletto virtuale. Il primo.
Nasceva, si nutriva, espletava le proprie necessità e – tranne la riproduzione (povero Tamagotchi) – riproduceva in tutto e per tutto la vita di un essere vivente, tant’è che ad un certo punto moriva (per la somma disperazione dei propri padroncini: ai tempi, quando le psicosi erano meno postmoderne, si parlava di ragazzini entrati in depressione per la morte dei propri Tamagotchi. Peccato che bastava premere un pulsante per far nascere un altro Tamagotchi).
Così, anni dopo, la Hasbro decise di lanciare una evoluzione del Tamagotchi: dotato di un corpo (di peluche) e di una vita infinita (come si fa a morire un giocattolo dotato di un corpo che non deperisce?). Si trattava del Furby, esserino alquanto inquietante (sarà stato probabilmente per gli occhi a palla, ma m’ha sempre trasmesso una certa inquietudine) che interagisce con il mondo circostante: dotato di 6 sensori sparsi su tutto il corpo, è in grado di eseguire oltre 300 combinazioni di movimenti di occhi, orecchie e bocca e di dire fino a 800 frasi diverse. Insomma, un gran rompipalle (dotato per altro di una vocina alquanto fastidiosa. Una delle tre a disposizione).
Perché avere un Furby? Per curarlo, ovviamente (anche se, non morendo, non se ne capisce la necessità), ma anche per insegnargli la lingua (una delle sei in cui fu distribuito: inutile dire che, tra esse, c’era anche l’italiano. Ci hanno sempre tenuto in grande considerazione).
Imparava solo un frasario già precostituito, ma – poco importa – nei ’90 Furby era un mito.
Col tempo, la Hasbro ha prodotto e distribuito forme di Furby sempre differenti (c’è anche quella in modalità app, inutile dirlo), ma il successo della fine dei ’90 non venne mai più raggiunto. D’altra parte, solo quelli erano i magici anni ’90.