Il fenomenale sviluppo tecnologico degli ultimi vent’anni ha spesso fatto pensare alla possibilità di creare delle protesi oculari capaci di restituire la vista a coloro che l’avevano persa a causa di malattie. Questa prospettiva, però, era osteggiata dal fatto che quando una persona perde la vista, pur non avendo subito danni a livello nervoso, le aree del cervello dedicate all’elaborazione delle informazioni legate alla vista vengono riprogrammate in altri settori del cervello come ad esempio a quelli dedicati all’udito ed al tatto.
La convinzione comune era quindi che anche con delle protesi ben congegnate, l’area del cervello dedicata alla vista non si sarebbe potuta più riattivare e che gli impulsi necessari a vedere non si sarebbero potuti ricreare nemmeno con le protesi più avanzate. Un recente studio, condotto dalla ricercatrice italiana Maria Concetta Morrone dell’Università di Pisa, ha dimostrato che le aree del cervello dedicate alla vista possono riattivarsi anche dopo un lungo periodo di cecità.
Grazie ad una serie di monitoraggi, l’equipe italiana ha scoperto che il cervello risulta altamente malleabile anche in età adulta e permette quindi la riattivazione di aree abbandonate, a spiegare il processo di riattivazione ci ha pensato il ricercatore Guido Marco Cicchini tramite le pagine del quotidiano torinese ‘La Stampa‘: “Dopo aver impiantato delle speciali protesi, fatte da un chip posto sul fondo dell’occhio che invia i dati presi da una piccola telecamera, e grazie all’esercizio, le aree cerebrali `abbandonate´ tornano alla loro funzione visiva. La stimolazione le porta a riorganizzarsi”.