Competitività o non competitività, questo è il problema! Il Mezzogiorno arretra

Di “competitività” si parla, poco in verità (molto poco), da circa un ventennio. Cosa sia esattamente la competitività, pochi (rischio di peccare in presunzione) saprebbero rispondere. Se si parla di competitività, non si può non parlare di globalizzazione (fenomeno su cui molto si è scritto e dibattuto). Assistiamo, ormai rassegnati, alla capacità della globalizzazione di modificare profondamente la nostra quotidianità, alla multidimensionalità di tale processo, non essendo solo economico, ma anche (se non soprattutto) culturale, politico e sociale.

Ormai da più di un trentennio è cambiata la tipologia di sviluppo: non più un solo modello di sviluppo, ma più modelli, differenziati in base alle diverse identità territoriali, alle diverse specificità delle aree oggetto delle public policy; si è cominciato, quindi, a parlare di “localismi autopropulsivi”, di “economie regionali”, di dimensione territoriale dello sviluppo economico. Sono aumentate le dinamiche della globalizzazione: è mutato lo scenario economico mondiale, ed anche quello locale. Il miglioramento delle comunicazioni e le tecnologie della società dell’informazione spingono sempre più le realtà territoriali ad una maggiore “competizione”. Lo sviluppo locale dipende dalla capacità di un determinato territorio di diventare “competitivo” nel mercato globale, con l’effetto di esclusione di tutte quelle aree che non sono in grado di sostenere i nuovi ritmi imposti dalla globalizzazione, ciò in termini non solo economici, ma anche culturali e politici.

A proposito di competitività, è stata presentata una classifica stilata dalla Commissione UE sull’indice di competitività regionale (R.C.I.), che misura la capacità di un’area regionale di essere attrattiva e sostenibile sia per le aziende sia per i cittadini che vi risiedono.

Dieci sono gli indicatori, individuati dalla UE, per misurare tale indice: dalle istituzioni, alle infrastrutture, dalla stabilità economica, alla sanità, dall’istruzione di base e superiore, alle performance del mercato del lavoro, dalla infrastrutturazione tecnologica, al tessuto produttivo, all’innovazione scientifica e tecnologica.

Ebbene, l’Italia si colloca nella parte bassa di tale classifica, in compagnia (buona?) delle piccole Cipro e Malta, della martoriata (economicamente) Grecia e della gran parte dei (fragili economicamente) Paesi dell’est europeo.

Altro particolare, non irrilevante, è che tra le regioni italiane la Sicilia è “comodamente” assiepata nelle ultime posizioni: delle 263 regioni dell’Unione europea, la Sicilia è collocata al 237esimo posto, scendendo di due posizioni rispetto alla precedente graduatoria, e comunque ultima fra le regioni del Sud Italia (in compagnia di Basilicata, Campania, Sardegna, Puglia e Calabria); mentre la Lombardia risulta la regione italiana più competitiva, essendo collocata al 143esimo posto, seguita dalla Provincia autonoma di Trento e dal Lazio. Confrontando i dati statistici del 2016, con le classifiche precedenti, del 2010 e del 2013, varie regioni di Francia, Germania, Svezia, Regno Unito e Portogallo, hanno registrato un miglioramento delle proprie posizioni, mentre per alcune regioni dell’Irlanda e dei Paesi Bassi si registra un peggioramento. A fronte di tutto questo, la classe politica nazionale e regionale ha giocato un ruolo negativo, troppo spesso impegnata a galleggiare piuttosto che programmare efficaci interventi di sviluppo socioeconomico di micro e macro area.

La Sicilia, poi, sconta la pressoché quasi inutilità degli ultimi governi regionali, dalla stagione (fallimentare) dell’autonomismo (di lombardiana memoria) alla stagione, altrettanto fallimentare, della rivoluzione crocettiana: basti pensare al silenzio assordante sulla Politica di Coesione e sul ciclo di Programmazione, a valere sui Fondi europei, 2014-2020. Non vi è traccia di ciò nel dibattito politico siciliano, e dire che l’Accordo di Partenariato (che si pone come obiettivo di rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale), siglato dal Governo italiano insieme alla Commissione europea, prevedeva l’investimento in Italia di 32,2 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti 10,4 miliardi per lo sviluppo rurale e 537 milioni per il settore marittimo e per la pesca.

E’ di questi giorni, però, la notizia (sbalorditiva) che alcune regioni (tra cui la Sicilia, la Basilicata ed il Molise), hanno chiesto a Bruxelles di ridurre il cofinanziamento del Programma Operativo “FESR” al 20%: cioè, in poche parole, il PO più ricco di risorse, calerà a 4 miliardi, subendo una riduzione pari a 285 milioni. Perché ? Semplicemente, perché mancano i progetti: del parco progetti della Regione Sicilia, non è dato sapere alcunché. Come anche delle politiche nazionali rivolte al Mezzogiorno non vi è traccia nel dibattito politico quotidiano, occupato ormai solo dal dilemma “reddito di cittadinanza sì, reddito di cittadinanza no; quota 100 sì, quota 100 no”.

Antonio Maria Ligresti