Uno studio del 2015 pubblicato su Nature Medicine smonterebbe l’ipotesi dell’origine naturale del virus
La diffusione del coronavirus fuori dai confini nazionali cinesi sta mettendo a dura prova scienziati ed esperti virologi di tutto il mondo. Le ricerche condotte sulla tipologia dei coronavirus in generale sono state molte, ma oggi sappiamo ancora troppo poco sulla mutazione genetica del virus che sta spaventando tutto il mondo. Di certo siamo a conoscenza del fatto che il covid-19 condivida il 79% della sua sequenza genetica con SARS e il 50% con MERS. Fra le ricerche condotte l’attenzione è ritornata recentemente su uno studio condotto nel 2015 pubblicato su PubMed, dal titolo “Cluster simile alla SARS di coronavirus di pipistrello circolante rappresenta una minaccia per l’emergenza umana“, che smentirebbe l’origine naturale del coronavirus fino ad oggi ipotizzata.
Coronavirus incrocio fra due genetiche virali?
Senza lasciare spazio ad inutili allarmismi, si tratta però di valutare fino in fondo quali siano tutte le ipotesi circa il vettore dal quale il virus si è originato. Fra le varie congetture emerge quella presentata in questo studio, nel quale l’origine del coronavirus sarebbe da attribuirsi all’unione fra un tipo di coronavirus scoperto in una particolare specie di pipistrello cinese assieme ad un altro virus responsabile della diffusione della SARS sui topi da laboratorio. Questo studio già all’epoca fece esplodere un’accesa polemica nella comunità scientifica internazionale. Dall’origine di quel dibattito furono molti gli scienziati che dedicarono numerose pubblicazioni al tema, mettendo il luce la pericolosità di questo tipo di esperimenti per la salute umana.
Gli scienziati della rivista avevano previsto tutto?
Simon Wain-Hobson, virologo presso l’Istituto Pasteur di Parigi, fu una delle voci più autorevoli a riguardo. Secondo il virologo “occorrerebbe chiedersi seriamente se le informazioni che possiamo ricavare da studi simili valgano il rischio che potenzialmente portano con sé” ma, soprattutto, “se ci fosse una fuga di quel virus, anche minima, nessuno potrebbe predirne la traiettoria”. Ancora più rigido fu il giudizio del professor Richard Ebright, biologo molecolare ed esperto di biodifesa alla Rutgers University, in New Jersey: “L’unico impatto concreto che otteniamo da questo lavoro è la creazione, in laboratorio, di un nuovo rischio non naturale”.
Il laboratorio di Wuhan e l’accusa degli Stati Uniti
Uno degli aspetti su cui si sta maggiormente discutendo è la presenza a Wuhan del laboratorio di massima sicurezza, classificato come un P4. Un laboratorio unico nel suo genere in Cina, nel quale, secondo quanto riportato dalla rivista Nature, si conducono studi sugli agenti patogeni più pericolosi al mondo. Questo è stato il presupposto su cui gli Stati Uniti, ma non solo, hanno iniziato a lanciare attacchi contro la Cina. Il senatore repubblicano dell’Arkansas, Tom Cotton, ha chiesto ufficialmente che il governo cinese fornisca al governo statunitense la certificazione che il coronavirus non sia un’arma biologica.
Il giallo della ricercatrice cinese
Fra gli autori della pubblicazione tanto discussa spunta quello di Shi Zhengli, una ricercatrice cinese. Lo scorso 20 gennaio, sempre sulla stessa rivista, la dottoressa Zhengli ha firmato a suo nome un articolo nel quale viene confermata la mutazione animale del virus e l’assoluta responsabilità diretta del pipistrello cinese. Una sincera ritrattazione scientifica o pressioni politiche giunte dalla Repubblica Popolare? La voce non è stata confermata, ma secondo alcuni organi della stampa cinese il governo centrale ha inviato ad Hubei la general maggiore Chen Wei, massimo esperto nazionale di armi biochimiche per la difesa, il cui quartier generale sarebbe diventato il laboratorio p4 tanto oggetto di discussione. Fare del complottismo non verificato da dati non aiuta nessuno in un contesto così delicato, ma a volte a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si indovina.