Nel 1980 una terribile eruzione causò oltre 50 vittime e cambiò per sempre il profilo morfologico del territorio del Parco Nazionale di Mount St. Helens, nello stato di Washington
Il Monte Sant’Elena, il Vesuvio degli States
Il vulcano americano noto come Mount St. Helens è uno stratovulcano attivo che dà il nome all’omonimo parco. In Italia un vulcano dello stesso tipo è il Vesuvio, che infatti ne ricalca in pieno la pericolosità.
Gli stratovulcani hanno coni molto ripidi, formati da strati successivi di vario materiale (lava, cenere, pomici etc..) e producono eruzioni di tipo esplosivo, in cui una grande quantità di ceneri e polveri incandescenti viene eiettata in atmosfera, ricadendo a grande velocità e carbonizzando tutto ciò incontra in quella che viene generalmente definita “colata piroclastica”, come accadde nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che distrusse, tra le altre, le città di Pompei ed Ercolano.
L’America scopre la pericolosità dei Vulcani
Il 18 Maggio 1980 il Monte Sant’Elena dimostra agli Stati Uniti tutta la sua capacità distruttiva in una nazione che, fino a quel momento, non riportava nessun decesso legato a fenomeni eruttivi.
Nei mesi precedenti il fatidico giorno, il vulcano mostrò ripetutamente i segni di un’imminente esplosione: già da Marzo infatti iniziarono a susseguirsi sciami sismici di intensità elevata, fino ad eventi di oltre 4 gradi della scala Richter. Il fianco Nord del Vulcano iniziò rapidamente a gonfiarsi, sotto la spinta del magma in risalita, e conseguentemente la sommità del cono iniziò a collassare per la distensione delle rocce intorno ad essa. Il Parco fu chiuso e il governatore dello Stato di Washington decretò l’istituzione di una zona rossa, col divieto assoluto di transito a personale non autorizzato, estesa 8 km intorno al vulcano. Nonostante la stretta sorveglianza scientifica, l’evento finale di quei due mesi di attesa arrivò del tutto inaspettato
Il crollo del versante Nord e l’inizio dell’esplosione
Alle 8.32 del mattino, l’ennesima scossa di terremoto fece crollare il versante Nord del cono vulcanico. Il crollo innescò una serie di eventi in successione: il materiale distaccatosi dal vulcano franò rovinosamente lungo le pendici, riversandosi ad oltre 250 km/h nel vicino Spirit Lake e nel North Rock Toutle River: dal lago si sollevò un gigantesco Tsunami alto altre 160 metri, mentre dal fiume vennero riversati 2,9 km³ di detriti che invasero la valle per 62 km². Anche le acque del fiume Columbia furono invase da una colata inarrestabile di materiale detritico, dovuto allo scioglimento del ghiaccio e della neve sulla sommità del cono.
I gas incandescenti liberati dal crollo riscaldarono l’acqua della falda acquifera fino a trasformarla in vapore, generando due esplosioni: la prima, orizzontale, lungo la stessa parete Nord, la seconda, verticale, innalzò una colonna di fumo, cenere e lapilli che si sollevò per 24 km nell’atmosfera e i cui resti si depositarono sul territorio di ben 11 stati della nazione.
La zona rossa e il bilancio delle vittime
La decisione di istituire una zona rossa ed evacuarla dei suoi abitanti riuscì ad evitare una ecatombe. Le vittime, morte soffocate e carbonizzate a causa della nube ardente che si sprigionò nell’esplosione, dimostrarono che 8 km di raggio non erano però sufficienti a garantire a tutti l’incolumità.
Nei mesi successivi altre esplosioni si susseguirono fino all’esaurimento dell’energia contenuta nelle falde del vulcano, ma con effetti, fortunatamente, molto meno disastrosi.