Della morte di Cesare Romiti: c’era una volta il capitalismo italiano

Romiti e Agnelli

Con la morte di Cesare Romiti, manager di ferro definito dai più esponente della “razza padrona”, per dirla con Giuseppe Turani, riaffiorano ricordi di vicende e personaggi protagonisti di una stagione del capitalismo italiano “da esportazione”: una stagione probabilmente – a voler essere ottimisti, anche se di ottimismo ce n’è poco – irripetibile.

Scalate, salotti buoni, dinastie industriali: sembrerebbe una terminologia da soap opera, in realtà parliamo del periodo d’oro della grande finanza italiana, con protagonisti banchieri e capitani d’industria che, tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo scorso, hanno guidato il capitalismo nostrano decidendo le sorti di società e carriere, e consolidando quella borghesia illuminata che ha portato il nostro Paese tra le otto potenze industriali del mondo.

Come non ricordare infatti, nel 1971, la scalata dell’ENI di Eugenio Cefis alla Montedison, guidata da Giorgio Valerio, nata nel 1966 dalla fusione, promossa dal banchiere siciliano Enrico Cuccia, tra la “Montecatini” e la “Edison” – con Giovanni Agnelli alla presidenza di Confindustria e Cefis suo vice. Il nuovo progetto industriale è frutto delle intuizioni sempre di Cuccia. Il referente politico di Cefis è il “cavallo di razza” democristiano Amintore Fanfani; alla segreteria del partito di maggioranza relativa siede Arnaldo Forlani. Sono gli anni del centro-sinistra organico, basato sull’accordo politico tra DC, PSI, PSDI e PRI; gli anni dei governi guidati dai democristiani Emilio Colombo e Mariano Rumor; sono però anche gli anni del tentato golpe Borghese. La storia si ripete negli anni Ottanta con la scalata alla BI-Invest della Famiglia Bonomi, nel 1985, da parte della società di Foro Buonaparte, ovvero la Montedison, guidata da Mario Schimberni, alla cui guida arriva nel 1986 Raul Gardini, erede dell’impero Ferruzzi, ideatore del progetto Enimont, ovvero la fusione nel 1988 tra Enichem e Montedison: un disegno industriale, partorito da Gardini, che poneva l’Italia come il principale competitor nel settore della chimica a livello mondiale. La Montedison faceva gola a molti perché deteneva il controllo di Fondiaria, vera gallina dalle uova d’oro. In occasione della conquista della società assicurativa fiorentina, famosa l’invettiva dell’Avvocato: “Bi-Invest humanum, Fondiaria diabolicum”. Siamo nella stagione politica dei governi del “Pentapartito”, ossia dell’accordo politico-programmatico tra DC, PSI, PSDI, PRI e PLI, guidato dal leader socialista Bettino Craxi.

E come non ricordare la “Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali”, meglio nota col nome di “Bastogi”, il principale “salotto buono” dell’economia nazionale, nel 1971 teatro della prima OPA (Offerta Pubblica di Acquisto) della storia repubblicana da parte del finanziere siciliano Michele Sindona, il cui tentativo fallisce per la reazione dell’establishment finanziario italiano capeggiato dall’allora Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, e dal maggiore banchiere italiano, Enrico Cuccia, vero deus ex machina dell’intero sistema economico-finanziario per oltre un cinquantennio. Grazie a quest’ultimo Mediobanca, fondata nel 1946 per iniziativa di Raffaele Mattioli, presidente di una delle cosiddette “banche di interesse nazionale”, ovvero la Banca Commerciale Italiana, e dello stesso Cuccia, diventa la più importante banca d’affari del Paese, arbitro del destino delle maggiori aziende italiane, dalla Olivetti alla FIAT della Famiglia Agnelli, dalle Assicurazioni Generali alla Pirelli, da Bonomi ai Lucchini, dai Falck all’Italcementi di Giampiero Pesenti, da Orlando alla Sai della Famiglia Ligresti, alla “Gemina” (Generale Mobiliare Interessenze Azionarie), fondata nel 1961, e destinata a diventare negli anni Settanta il nuovo salotto buono della finanza italiana, svolgendo attività di holding di partecipazioni industriali. Mediobanca gioca un ruolo di assoluto rilievo anche sulla scena internazionale, stringendo accordi con alcuni dei più prestigiosi gruppi finanziari, tra tutti lo statunitense Gruppo Lazard dei banchieri francesi André Meyer e Pierre David-Weill e l’americano Felix Rohatyn. Cuccia insieme ai suoi allievi, fra tutti Vincenzo Maranghi, guida per lunghi anni il capitalismo italiano nelle acque agitate della globalizzazione finanziaria. Con il Testo Unico del 1993 in materia bancaria, durante il governo tecnico guidato dall’ex Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, che consentì anche agli istituti di credito ordinari l’attività nel mercato del credito a medio/lungo termine, iniziò il declino del sistema basato sull’esclusività di Mediobanca in tale ruolo. L’uscita di scena di Cuccia prima e di Maranghi dopo, completarono il quadro.

E poi, ancora, la scalata nel 1984 al “Corriere” di Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din, da parte di Gemina, Me.T.A. (ossia Montedison) e dell’industriale siderurgico Giovanni Arvedi – amico del vicesegretario del PSI Claudio Martelli. Comune denominatore della cordata, sempre Enrico Cuccia e la sua Mediobanca.

E Cesare Romiti fu uno dei grandi protagonisti di questa stagione, per ben venticinque anni alla guida del maggior gruppo industriale italiano, la FIAT. Fu proprio Enrico Cuccia a presentarlo nel 1974 all’Avvocato Agnelli, e Romiti rivestì dentro la società torinese il ruolo di garante degli equilibri finanziari per conto della galassia Mediobanca.

Le vicende qui sinteticamente narrate, che hanno visto protagonisti alcuni dei maggiori capitani d’industria e banchieri e finanzieri dell’epoca, testimoniano la grande vivacità e centralità del capitalismo italiano. Si fa fatica a pensare – o meglio a comprendere – cosa sia oggi il capitalismo italiano: individuarne le dinamiche è operazione non facile. Certamente la classe politica attuale non è all’altezza di quella del passato, nel bene e nel male: non si colgono visioni, progetti, disegni dell’Italia del futuro. E ciò non è addebitabile alle congiunture dei processi di globalizzazione o, peggio, di imprevedibili pandemie, ma – a parere di chi scrive – alla diffusa mediocrità del personale politico ai diversi livelli istituzionali.

Antonio Maria Ligresti