Oltre 30 anni di carriera artistica e collaborazioni con i più grandi artisti della musica italiana i Tazenda festeggiano i loro ventesimo album “Antistatis” con il singolo “La ricerca del tempo perduto”, tra resistenza, l’amore per la propria terra e il ricordo di Andrea Parodi
D: Ragazzi, innanzitutto come state e che periodo state vivendo?
R: Ciao e grazie per queste bellissime domande. Noi stiamo bene sia come insieme-famiglia Tazenda, sia come singoli individui. Chiaramente abbiamo subito tutti i contraccolpi della categoria e dei lavoratori comuni, dovuti al periodo, ma stiamo provando e riuscendo ad affrontarlo con un po’ di saggezza e filosofia. Cosa abbiamo fatto? Ci siamo rinchiusi in sala prove e abbiamo preparato uno spettacolo che andrà “in onda” quando i cancelli verranno riaperti. Noi siamo pronti! Solo in quel momento potremo capire se abbiamo capitalizzato il brutto periodo: abbiamo scritto tante nuove canzoni, abbiamo fatto uscire il nuovo disco e siamo pronti sotto diversi fronti Non è un periodo bello, ma siccome è così ne prendiamo atto e proviamo a “strizzare” qualcosa di buono da questo tempo libero che ci hanno regalato senza averlo richiesto.
D: Antistatis è il vostro ventesimo album, un percorso artistico il vostro che inizia nel 1988. Con 2 partecipazioni al Festival di Sanremo, prestigiose collaborazioni con De Andrè, Ramazzotti, PierAngelo Bertoli , Corrado Rustici e tanti altri. Come è cambiato l’universo musicale intorno a voi e se in un certo qual modo ha “modificato” anche il vostro modo di fare musica.
R: Il nostro modo di fare musica è cambiato, nel senso che è cambiato il nostro modo di stare al mondo: dopo 30 anni di musica niente è più come prima. Non ci sono più le grosse case discografiche che ti “coccolano”, che ti offrono il vitto-alloggio, in quanto la disponibilità economica è decisamente minore, soprattutto a causa del crollo delle vendite dei dischi. La nostra forza di rimanere puri e fedeli al nostro modo di fare musica, il nostro mind set è cambiato e di conseguenza anche il nostro modo di percepire, produrre e realizzare la musica è inevitabilmente diverso. È come se i Pink Floyd o i Genesis adesso facessero un disco psichedelico come negli anni ’60-’70: sarebbero certo encomiabili per la loro purezza stilistica, ma sarebbero dei dischi che non verrebbero forse capiti, se non da qualche vecchio collezionista amatore (come noi). E’ inevitabile che la musica segua i passi del mondo e quindi ben venga tutto ciò che c’è di buono: noi siamo pronti a collaborazioni anche con giovani artisti emergenti, perché è nella nostra cifra stilistica quello di adattarci a ciò che accade, seppur mantenendo una grossa quota della nostra tradizione culturale e musicale.
D: Antistatis, deriva dal greco “resistenza”. Ma quanto conta oggi essere resistenti
R: “Resistenza”, “Antìstasis”: questa parola l’abbiamo creata ad arte per indirizzare le nostre chiacchierate con i media in mood profondo, perché è in effetti così che si può comunicare un messaggio importante sul nostro lavoro, partendo da delle basi che servono come un catalizzatore, che serve per introdurre un discorso più importante. Già il fatto che sia in greco antico ci mette sull’attenti tutti quanti, perché ricordiamoci che la nostra cultura poggia i propri passi sulle orme lasciate dalla cultura dell’antica Grecia. Essere resistenti oggi costa, perché alla personalità dell’essere umano occorre fare uno sforzo per resistere a ciò che accade; poi ci sarebbe un modo più furbo e intelligente, che è quello di non resistere affatto, che sarebbe la più alta e sublime forma di resistenza, ovvero quella di accettare le cose come sono, che non deve essere interpretata come una resa per pigrizia o per “mollezza”, ma come una resa per intelligenza, che dice che se le cose sono così non si possono cambiare, ma si può cambiare la nostra reazione alle cose da questo momento in poi.
D: Il rock etnico si mescola nella vostra musica alle vostre radici sarde. Una terra che da sempre ispira nella sua cultura e nel sua gente l’ideale di liberta. Essere isolani rappresenta un po sentirsi indipendenti?
R: È l’eterna delizia e l’eterna condanna: è veramente un’arma a doppio taglio in quanto siamo liberi, ma siamo anche prigionieri. Come si usa dire anche in filosofia “lo schiavo forse è più libero del padrone”, perché il padrone per tenere in schiavitù lo schiavo deve stare lì a guardarlo. Noi siamo liberi perché siamo isolati, ma allo stesso tempo non abbiamo la libertà di avere tutto ciò che c’è oltre il mare. Ma è una condanna dolce che noi portiamo con grande cuore, sostanza e voglia: essere sardi è un modo di essere, uno stato mentale; non ci si sveglia la mattina dicendo “io sono sardo e devo essere più sardo”. No. Anche noi Tazenda come tali facciamo la nostra musica senza pensare di spingere l’acceleratore sul fatto di essere sardi. È semplicemente bello così e siamo orgogliosi di portarci questa bandiera.
D: “La ricerca del tempo perduto” , con la regia di Italo Palmer è stato registrato presso il carcere di San Sebastiano di Sassari. Umanamente che esperienza è stata?
R: Fare musica ha sempre un sapore illuminante nei confronti nel luogo che viene inondato dalla musica: più il luogo è scuro (intenso metaforicamente) più la nostra musica diventa la luce che “guarisce” questo posto. Ci sono dei luoghi che non hanno bisogno della “luce” della musica (come ad esempio suonare in una piazza), mentre quando si suona in un posto come un carcere o luoghi che hanno interpretato sofferenze o pene, ecco che lì si diffonde un’aura più magica: è come se questo nutrimento che viene dato ad un posto “morto” o “sofferente” compia il suo dovere, ovvero quello di sublimare in positivo le cose che in passato hanno subito “il male”.
D: La vostra formazione ha vissuto diverse “vite”, da trio, poi duo, ma non possiamo dimenticare la valenza che ha avuto per i Tazenda la figura di Andrea Parodi. Che anima musicale rappresentava per voi Andrea e che ricordo avete di lui?
R: Con Andrea siamo cresciuti insieme: quando lui è arrivato nella nostra sala prove mi ricordo che avesse 20 anni, Gigi 16 mentre io 18. Siamo cresciuti insieme non solo artisticamente ma proprio umanamente: Andrea non era un musicista quando è arrivato, e nemmeno un cantante, mentre noi lo eravamo già. Lui era un insegnante dell’istituto tecnico Nautico e noi siamo stati i suoi talent scout. Prendendolo per mano, lo abbiamo fatto diventare, insieme a noi un musicista, pur non suonando nessuno strumento. Il ricordo è, come anche dice Gigi, come il ricordo che si ha del proprio fratello. Era più di un amico, perché l’amicizia è una cosa molto importante, ma quando questa è condita da un lavoro che scende nelle “viscere” dell’essere umano per poter essere rappresentata a livello artistico, allora è come se si facesse un lavoro psicanalitico: è come se fossimo andati tutti e tre dallo psicologo per vent’anni, scavando nella profondità recondita della nostra anima, per poi rappresentare insieme tutto questo, sublimandolo appunto con la nostra musica, il nostro stile Tazenda. Poi quando uno viene a mancare c’è un silenzio assoluto che riempie metaforicamente una parte della nostra vita. Andrea è sempre con noi, ma Andrea è sempre assente da noi: questo paradosso è da digerire ma è molto importante.
Credits : Domenico Rizzo
Sergio Cimmino