Dioniso giunge a Tebe per diffondere il suo culto all’interno della comunità guidata da Pentèo, in tal modo affermando il suo ruolo privilegiato di figlio divino di Zeus non riconosciutogli in quella città. Vittima di questa impresa, nella quale egli infine avrà la sua vendetta, è l’arrogante re di Tebe: Dioniso si prenderà crudelmente gioco di lui fino a farne straziare il corpo dalla madre Agave in preda al delirio orgiastico che si è impadronito delle donne di Tebe.
La messa in scena della tragedia euripidea, curata da Laura Sicignano, ha il grande merito di guidare lo spettatore all’interno del suo svolgersi sottolineando i temi trattati con la massima semplicità, quasi prendendolo per mano.
Bravi gli attori, tutti; penalizzati da alcune scelte, che immaginiamo di regia, legate ai movimenti e all’uso delle voci. Anche certe nuance dialettali, liguri in Pentèo piuttosto che siciliane in Dioniso, stridono nel tono generale. Il commento musicale dal vivo, di grande impatto e ricco di suggestioni del Sud Italia, sembra stridere anch’esso con le musiche futuristiche del finale. Anzi, dei finali: considerato che lo spettacolo offre almeno due finti finali prima di quello definitivo. Negli ultimi dieci minuti, infatti, l’operazione risulta appesantita dal desiderio della regia di stupire il pubblico: voce registrata di Pentèo che, morto, racconta la sua straziante e straziata fine per mano della madre; proiezioni poco leggibili sulle quinte di una scena rappresentante l’interno di una stanza fatiscente; sempre proiettata, pioggia di lettere dell’alfabeto greco il cui senso è difficile cogliere. Insomma un potpourri di effetti un po’ datati e che provano a mascherare la vera impasse dello spettacolo: la resa scenica della vastità della schiera delle baccanti. Nel testo euripideo è il Messo a descrivere le vicende che si svolgono nelle selve che circondano Tebe; più volte si rimarca l’imponenza del branco delle Menadi. La prima, in cui parla di tre gruppi di donne, è forse quella che ha indirizzato la regia verso la scelta di dare corpo in scena solo alle tre guide – Agave, Autonoe e Ino; l’ultima, quando viene descritta la fine terribile che colpirà Pentèo: mentre nella tragedia è il Messo a raccontare i fatti, come da prassi nella scrittura teatrale greca, nello spettacolo l’azione viene riproposta sulla scena in una sorta di allegoria che però risente dell’esiguo numero di interpreti; nonostante lo sforzo fisico e interpretativo da elogiare – Egle Doria, Lydia Giordano e Silvia Napoletano sono le tre Menadi – risulta imbarazzante il contrasto fra la forza evocativa della musica dal vivo – di Edmondo Romano – e la sfrenata frenesia orgiastica delle isolate attrici. Eppure il Messo di Silvio Laviano ha mostrato una qualità attoriale che, siamo certi, gli avrebbe consentito di “reggere” e rendere al meglio il racconto originale. Purtroppo i fianchi più deboli della messa in scena sono concentrati sotto finale; in quei momenti certe scelte “rivoluzionarie” potrebbero risultare pericolose.
Spettacolo da vedere e da rivedere.
F.D.