A Siracusa, presso il Museo Archeologico Paolo Orsi, è conservato un lebete nuziale che racconta una storia incantantrice. Partiamo da Virginia Woolf che, nel suo libretto “On not Knowing Greek”, ci restituisce la grande intimità che a volte perdiamo con la civiltà greca classica: “Le loro [di uomini e donne greci n.d.r.] voci risuonano chiare e taglienti; noi vediamo i corpi di raso, abbronzati, giocare alla luce del sole tra gli alberi d’ulivo; e non posati con fredda bellezza sulle basi di granito nei pallidi corridoi del British Museum”.
L’immagine della scrittrice inglese è una fotografia che descrive alla perfezione la sensazione che spesso si prova di fronte all’arte greca antica: seducenza limitata alla bellezza delle forme e all’antichità delle opere; non certo travolgente e affidata al genius rei, diremmo al valore immateriale che in esse opere è immanente.
Dalle sculture alle raffigurazioni vascolari, la vita museale è il trionfo della forma e mai del sema; continuo sfilare di figure del mito più o meno filtrate dal racconto letterario. Soffermiamoci su questo aspetto, della raffigurazione fittile derivata dal racconto letterario. Gli artisti greci hanno attinto a piene mani dal patrimonio letterario giunto fino a noi: da Omero e i suoi personaggi ai tragici e le loro divinità, nella produzione ceramica greca antica trionfano storie che, per riprendere la Woolf, appaiono frizzate alla luce pallida dei millenni. Il lebete di Siracusa – proveniente da Lentini – ci suggerisce una lettura nuova, diversa, originale rispetto a ciò che abbiamo appena detto: in esso è riproposta una scena di normale matrimonio, lontano dai palcoscenici olimpici o mitologici, una scena che potrebbe essere ricondotta ai versi nuziali di Saffo. L’idea è rafforzata dal periodo di produzione del lebete, IV secolo avanti Cristo, secolo in cui lo scultore Silanione scolpiva Saffo in una statua destinata a Siracusa. Saffo, in quel periodo, godeva quindi di grande fama nel territorio siciliano e i temi della sua poesia dovevano essere conosciuti e utilizzati nella pittura vascolare.
I frammenti 23, 30 e 58 sembrano prendere voce, clear and sharp, dalle figure del vaso: la sposa incoronata che si orna per raggiungere la casa dello sposo alla quale verrà scortata da un corteo di giovani muniti di fiaccole, e in questo istante di addio all’età dei giochi e della leggerezza di vita la sua nutrice, Saffo in persona (?), le è accanto per il congedo definitivo. Anche le proporzioni sulla scena e la disposizione sembrano affidare un ruolo importante alla figura con i capelli bianchi – lèukai t’eghènonto trìches ek melàinan – segnata da una percettibile rigidità, dono della vecchiaia – gona d’ou fèroisi esth’isa nebrìoisin. Ecco, tutta la produzione “nuziale” della poetessa di Lesbo e delle sue eredi prende corpo e respiro nelle pareti del lebete; perché, necessariamente immaginare l’autore rivolgersi al mondo degli dei? Perché, vedere nelle figure realizzate divinità olimpiche intente nella ripetizione di un rituale legato alle loro prerogative? Quella sulla pancia del lebete potrebbe essere prima raffigurazione di Saffo “anziana”; in altre ceramiche non coeve la poetessa è raffigurata con la lira e con i capelli ancora neri; e pensare che l’idea inquietante della vecchiaia ricorre con una certa frequenza nei frammenti.
Siracusa e il suo museo ci permettono così una invenzione che fino a prova contraria resta plausibile; una invenzione che illumina di una luce più calda gli ambienti che ospitano le opere.
Da rivisitare.
Cfr. dello stesso autore dell’articolo: “Saffo in Sicilia”, Edizioni Officine Teatrali, 2020
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